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Terzo settore, innovare non significa “fare meglio”

L'editoriale dell'economista Stefano Zamagni che apre il numero del magazine di ottobre, in distribuzione da oggi. «Il mondo del Terzo settore non può pensare di limitare il proprio agire al perfezionamento o all’ottimizzazione di ciò che ha fatto finora. Se ci limitiamo a razionalizzare l’esistente crolla l’innovazione sociale»

di Stefano Zamagni

Gli organismi viventi nascono, di norma, in un ambiente già dato. Ambiente nel quale devono semplicemente trovare l’adattamento ottimale. Ma vi sono alcune specie che, nel corso del tempo, hanno imparato a sviluppare una strategia di sopravvivenza inedita. Queste specie cambiano il mondo attorno a sé, rendendolo migliore anche per gli altri. Un esempio è il castoro. Il castoro costruisce la propria diga e così facendo modi ca l’habitat che lo circonda, creando le condizioni che consentono ad altre specie di vivere. Nel linguaggio tecnico diciamo che il castoro è un costruttore di nicchie. Nella condizione attuale, potremmo sostenere che gli enti avanzati di Terzo settore sono come il castoro. Costruiscono nicchie.

Se fino ad oggi il Terzo settore era visto come un “tappabuchi” o come complemento utile ma non necessario, leggerlo attraverso la metafora del castoro permette di comprendere la sua capacità generativa per l’intero ambiente che lo circonda.

Dal Settecento a oggi, ogni qual volta si è realizzata una rivoluzione industriale questa ha determinato il passaggio di lavoratori e di coloro che operavano in un certo settore ad un altro settore. La prima rivoluzione industriale ha spinto alla fuoriuscita di forza lavoro dall’agricoltura alle fabbriche. Il sovrappiù generato dalla rivoluzione industriale è andato così a creare il secondario, ossia il settore industriale. La seconda rivoluzione industriale, agli inizi del Novecento, ha invece creato il settore dei servizi, il terziario. Oggi viviamo nel tempo di una nuova rivoluzione industriale e dobbiamo chiederci dove finirà il sovrappiù sia di lavoro sia di produttività che le nuove tecnologie del digitale e dell’intelligenza artificiale stanno per determinare.

Dobbiamo chiederci dove andremo ad allocare questo sovrappiù di forza lavoro e di produttività. C’è chi avanza una prospettiva di neoconsumismo: si dovrebbe spingere affinché questo sovrappiù diventi un volano per la domanda pagante, con lo svantaggio di deumanizzare la società. Ci basta? Non credo proprio.

C’è infatti un’altra prospettiva che fa entrare in gioco il Terzo settore, pensato come luogo che genera valore sociale nella forma di beni relazionali. Proprio perché le nuove tecnologie consentono un avanzamento rispetto ai bisogni elementari, dobbiamo usare questi avanzamenti per aumentare la fruibilità di beni relazionali. Beni di cui c’è un bisogno estremo.

Ma per far questo torniamo al punto di partenza: ci vuole un soggetto capace di innovazione sociale e questo soggetto è il Terzo settore. La prosperità deve essere inclusiva, non escludere. E proprio alle sfide della “Prosperità inclusiva” è stata dedicata l’edizione 2019 delle Giornate di Bertinoro per l’Economia civile.

Al cuore di queste sfide per includere e non escludere se ne apre un’altra: quella dei beni comuni, che comprende i digital commons, le piattaforme, le infrastrutture e le reti. Quale tipo di governance vogliamo dare a questi nuovi beni comuni?

A tal riguardo, la Commissione sulla Giustizia Economica ha diffuso un discussion paper titolato The Digital Commonwealth. È un documento significativo, ma anche rivelatore. Rivela che tutti avvertiamo l’esigenza di una governance per i digital commons, ma su quale debba essere il modello di governance per gestire i digital commons c’è ancora molta incertezza.

La mia proposta è che, su questo fronte, proprio gli enti del Terzo settore dovrebbero buttarsi a capofitto, occupandosi della definizione di questa governance.

Un’altra area di costruzione di nicchia riguarda le intelligenze artificiali. L’intelligenza artficiale, oggi, o è sviluppata in una modalità market driven o in una modalità state driven: o è guidata dalla logica del profitto o da una logica statale (il modello cinese, per intenderci). Ma è giunto il momento di pensare altre modalità, perché entrambe le direzioni (Stato, mercato) presentano delle aporie. Se dobbiamo pensare ad altre modalità, gli enti di Terzo settore indipendenti devono giocare un ruolo fondamentale nel valutare l’idoneità dell’intelligenza artificiale alla convivenza con l’uomo. Oggi non abbiamo solo la specie homo sapiens, abbiamo anche la specie machina sapiens. L’homo sapiens si trova sempre più a interagire con la machina sapiens, ma su quali basi deve avvenire l’interazione? A quali regole etiche devono sottostare le macchine? E l’uomo? Domande cruciali, che attendono risposte. Attendono risposte perché le intelligenze artificiali hanno oggi bisogno costitutivo di un’etica. Ma di un’etica nuova, un’algoretica, applicata agli algoritmi.

La mia tesi è che senza nulla togliere al mercato e allo Stato, non è possibile affidarsi a questi due enti nella stesura delle regole etiche che definiranno il nostro rapporto con le macchine. Se vogliamo evitare quella che viene chiamata algocrazia, il potere degli algoritmi sulla società, il Terzo settore deve intervenire fin da ora in questo ambito.

Gli enti del Terzo settore dovrebbero indicare le linee o, meglio, i requisiti fondamentali di un’algoretica. Indicare i confini invalicabili oltre i quali ci sarà solo il potere delle macchine, l’algocrazia.

Un altro ambito di costruzione di nicchia di cui il castoro-Terzo settore dovrebbe occuparsi è quello del ruolo della politica democratica nella stagione attuale…


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