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Integrazione socio-sanitaria: davvero è ancora tempo di invocarla?

L'integrazione socio-sanitaria, come obiettivo, è l'esito di una riflessione avviata 30 anni fa. Eppure oggi non è ancora realizzata, altrove è realizzata in maniera stravagante o ha prodotto difficoltà. E allora, ha ancora senso chiederla? Non è ormai obsolescente pensare a “categorie” di servizi e di prestazioni e non a “percorsi” che si fondino su un ben-essere raggiungibile e possibile del cittadino? La riflessione dell'avvocato Marcellino

di Francesco Marcellino

Nota della redazione. Nei giorni scorsi, con una lettera inviata al presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana, e agli assessori competenti, il Forum Terzo Settore Lombardia ha chiesto una retromarcia rispetto alla logica che quattro anni fa ha portato all’accorpamento all’interno dell’Assessorato al Welfare, sotto un’unica direzione, delle politiche sanitarie con quelle socio-sanitarie. Nelle intenzioni di Regione Lombardia questo “assessorato unico” avrebbe dovuto dare corso a quella integrazione socio-sanitaria che era auspicata da tutte le associazioni del Terzo settore e finalizzata a garantire maggiore benessere e qualità di vita ai cittadini più fragili. Questa integrazione – dice ora il Forum lombardo – «purtroppo, non si è realizzata». Al contrario, questi quattro anni sono stati «contrassegnati da crescenti difficoltà nella relazione con l’Amministrazione Regionale, così come nella conduzione di gran parte delle nostre attività» e nei fatti di è assistito «al permanere di strutture organizzative diversificate che non sempre hanno permesso o comunque facilitato il percorso di integrazione». Questa la premessa. Di seguito, la riflessione dell’avvocato Francesco Marcellino sull’integrazione socio-sanitaria, pensando anche alle altre esperienze regionali.


Leggendo la notizia della lettera inviata dal Forum Terzo Settore Lombardia per chiedere una retromarcia rispetto all’accorpamento all’interno dell’Assessorato al Welfare, sotto un’unica direzione, delle politiche sanitarie con quelle socio-sanitarie, mi è sorta spontanea la domanda se è ancora tempo di invocare la realizzazione dell’integrazione sociosanitaria, oppure no. L’integrazione socio-sanitaria è il frutto di una evoluzione culturale, scientifica e giuridica, che trova previsione normativa nel Decreto Legislativo N° 502/92, nei primi provvedimenti sui Livelli Essenziali di Assistenza e nella Legge N° 328/00.

Benché, quantomeno sui miei territori, spesso si imputi la disciplina dell’integrazione sociosanitaria alla L. 328/00, quest’ultima ne rappresenta solo una sorta di completamento di un percorso, anche giuridico, sorto ancor prima dello stesso Decreto Legislativo N° 502/92 (c.d. “Legge Bindi” di Riforma del Sistema Sanitario Nazionale). Oggi, quindi, siamo a 20 anni dalla Legge 328/00 ed a 28 anni dal Decreto Legislativo 502/92. E siamo ad oltre 30-35 anni dall’esordio di quel percorso culturale, scientifico e giuridico che pose le fondamenta degli atti normativi sopra richiamati che introdusse l’integrazione socio-sanitaria non come presupposto, ma come “esito” di una valutazione multidimensionale, interdisciplinare e interprofessionale dei bisogni delle persone e degli interventi e servizi.

Ha quindi senso, dopo tutto questo tempo trascorso e alla luce degli ulteriori avanzamenti scientifici, culturali e giuridici, continuare ad invocare, oggi, la realizzazione dell’integrazione socio-sanitaria? Ha ancora senso, anche alla luce delle esperienze compiute dalle Regioni nelle quali vi sono state applicazioni sociali e giuridiche dell’integrazione socio-sanitaria – non sempre strettamente corrispondenti ed adeguate alle previsioni legislative – invocarne la corretta applicazione? Ha ancora senso, che le Regioni nelle quali un vero e proprio avvio dell’integrazione socio-sanitaria non c'è stato, o c'è stato in modo molto frammentato, originale (posso dire anche "stravagante"?), queste perseverino o tentino di realizzare l’integrazione socio-sanitaria (eventualmente anche come prevista e voluta dalle normative nazionali)?

Pur dovendosi ricordare che fin tanto che la Legge è vigente deve essere applicata e rispettata, da un punto di vista tecnico-scientifico e, quindi, de iure condendo, mi pongo e pongo il quesito. Sappiamo che una certa (stravagante) applicazione e/o interpretazione dell’integrazione socio-sanitaria, ha spesso determinato confusione tra fonti e criteri di finanziamento, tra servizi e prestazioni e loro rispettivi fonti e criteri di finanziamento, tra un’area (quella sanitaria) e l’altra (quella sociale) dell’amministrazione pubblica, oltre che confusioni con specifiche discipline regionali (socio-assistenziali; socio-educative, etc…) ben diverse dall’integrazione socio-sanitaria prevista dalla normativa nazionale, anche se esse stesse primogeniture di quella che è divenuta l’integrazione socio-sanitaria di cui al Decreto Legislativo N° 502/92 ed alla Legge N° 328/00. Sappiamo che l’integrazione socio-sanitaria, frutto di un’analisi tecnico-scientifica dei bisogni omnicomprensivi e complessi delle persone – e in particolar modo dell’area delle fragilità – ha determinato ragionevoli e considerevoli aspettative da parte sia “dell’utenza”, ma anche da alcune “aree” sociali e socio-assistenziali di erogatori di servizi e prestazioni. Sappiamo che anche grazie all’integrazione socio-sanitaria, si è inteso spingere il sistema dell’offerta verso il territorio, verso la domiciliarità, sostenendosi, condivisibilmente, della necessità di mettere “al centro la persona” ed i suoi bisogni. Ebbene: è legittimo chiedersi – anche alla luce del considerevole tempo trascorso – se tutto questo si è realizzato? E, soprattutto, come si è realizzato?

E a maggior ragione, oggi, ormai nel 2020, è legittimo chiedersi se ha ancora senso invocare un’integrazione socio-sanitaria? O un’integrazione socio-sanitaria come si è, di fatto, realizzata (o non realizzata)? Oppure, forse, non è il caso di soffermarsi sulle innovazioni scientifiche sopravvenute, nelle materie dell’assistenza sociale, della psicologia, della medicina (neurologica, psichiatrica, neuropsichiatrica infantile, fisiatrica), nell’area della valutazione dei bisogni e del “funzionamento” delle persone (e non degli handicap), indipendentemente, quindi, dalle “etichette sociali e diagnostiche” per un verso, nonché nella “governance”, nella organizzazione, gestione, accesso, fruizione ed offerta dei servizi e delle prestazioni sociali e sanitarie, per altro verso? È legittimo o si ritiene troppo avveniristico, immaginare, ormai, una inadeguatezza, tardività e non più sufficientemente adeguata (se non persino controproducente) condizione, nel forzare, strumenti, risorse e rami dell’amministrazione verso una “integrazione” incompiuta dopo oltre 20-30, quando nel contempo la obsolescenza tecnologica e la ricerca scientifica hanno tempi considerevolmente più veloci e diversi?

Può immaginarsi che non è più un tema da considerarsi all’ordine del giorno (per me non avrebbe mai dovuto esserlo) “l’integrazione tra i rami dell’amministrazione” ma tra i “bisogni” delle persone e la soddisfazione adeguata di essa? E come oggi, ciò, possa anche perseguirsi con dei banali sistemi informatici? È legittimo pensare che sia ormai obsolescente pensare a “categorie” di servizi e di prestazioni e non a “percorsi” di prevenzione, cura e di abilitazione e riabilitazione, intensivi, estensivi e di mantenimento, di assistenza, socializzazione, inclusione, sulla base della valutazione dei bisogni e sul raggiungimento degli obiettivi, di cittadinanza e qualità di vita, che si fondino su un ben-essere raggiungibile e possibile del cittadino? Che è il “percorso” (e non il servizio o la prestazione) che deve caratterizzarsi per una modulazione in complessità, intensità e durata?

Posso manifestare ed enfatizzare di aver utilizzato la parola “percorsi” e non più quella di “progetti” (di vita, di autonomia, di…. diritti esigibili…. alle volte solo sulla carta)?. Posso spiegare che un “percorso” (di prevenzione, di cura, di assistenza, etc….) ha sempre una meta (o più mete) e che può condurre anche a “marce indietro”, verifiche o cambiamenti di rotta, sia in tema di quantità di supporti e di qualità e modalità degli stessi? Affermo questo anche in quanto dovremmo riuscire a mettere in correlazione il “vecchio” (almeno per me!) sistema con gli indirizzi e gli sviluppi futuri (già esistenti in medicina, ma certamente che si presenteranno anche nelle altre scienze sociali ed assistenziali) che fondano l’assistenza su Linee Guida, Protocolli operativi costituenti “buone prassi clinico-assistenziali” – anche di cui alla c.d. “Legge Gelli” – e che orientano, ormai, l’operatore sanitario (e in futuro quello sociale) nell’esecuzione della prestazione, ma che un futuro potrebbero orientare anche il sistema complessivo di governo, di gestione, di organizzazione e di remunerazione di quella attività clinica, terapeutica, riabilitativa e…. assistenziale. Posso tentare di rappresentare che il percorso, di prevenzione, di cura, etc… si fonda già, di per sé, su protocolli e linee guida sociali e sanitarie ottimizzate e personalizzate ai bisogni del cittadino ed ai potenziali e concreti obiettivi da questo raggiungibili?

Comprendo che il presente ragionamento, alla vigilia di Natale ed alle soglie dell’avvio di un nuovo decennio, possa considerarsi una somma di domande. Ma credo sia questo ciò che debba compiere la “ricerca” ed il “ricercatore”. Farsi domande. E soprattutto dare delle risposte. Ma la domanda deve essere: come posso migliorare il sistema? Penso che sia una domanda che accomuni utenti ed erogatori, politica e cittadini. Le persone, insomma. Oggi, dobbiamo pensare ai prossimi vent’anni. Con l’esperienza dei trent’anni precedenti. Ma non è detto che “invocando” qualcosa di “pensato” trent’anni fa e, magari, applicato nei prossimi dieci anni (e, quindi, ormai “vecchio” di quarant’anni!) possa essere ancora idoneo a quella ricercata qualità del diritto di cittadinanza e di ben-essere della popolazione. Pensiamoci.

Photo by JJ Ying on Unsplash


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