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Due libri per capire i ragazzini che fuggono dall’Africa e arrivano da noi

Possiamo provare a capire, o almeno a soffermarci con più consapevolezza su storie come quella di Ani Guibahi Laurent Barthélémy il ragazzino di 14 anni trovato morto l’8 gennaio scorso? Due libri ci aiutano. Un saggio, “Teen immigration” di Anna e Elena Granata e un romanzo “La seconda porta” di Raul Montanari

di Riccardo Bonacina

Arrivano attaccati ai carrelli degli aerei o con le barche, nascosti nei camion o a piedi sulle strade secondarie dei Balcani, poco più che bambini. Partono soli, viaggiano senza familiari e non hanno familiari da raggiungere, vivono in mezzo a noi, una generazione intera che arriva da noi dal sud del mondo.

Possiamo provare a capire le loro storie? Possiamo raccontarle oltre le retoriche contrapposte tra buonisti e cattivisti? Due libri, diversi per registro e per finalità, ci aiutano. Il primo è un saggio che è anche la riflessione intorno a un’esperienza di accoglienza in prima persona vissuta dalle due autrici, le sorelle Anna ed Elena Granata, la prima, ricercatrice in Pedagogia interculturale all'Università di Torino, la seconda docente di urbanistica al Politecnico di Milano. Sono loro a firmare “Teen Immigration, la grande migrazione dei ragazzini” (ed. Vita e Pensiero). Il secondo è un romanzo, “La seconda porta” (ed. Baldini + Castoldi) di Raul Montanari in cui il protagonista è Adam un diciasettenne scappato dall’Egitto e poi da un Centro di accoglienza.

Due libri che in modo diverso e mai banale ci aiutano a capire, o almeno a soffermarci con più consapevolezza su storie come quella di Ani Guibahi Laurent Barthélémy il ragazzino di 14 anni trovato morto l’8 gennaio scorso nel carrello di atterraggio di un aereo Air France arrivato a Parigi da Abidjan, in Costa d’Avorio. Ani è uno delle migliaia di ragazzi che soprattutto dall’Africa si spingono verso l’Europa, per le più diverse ragioni. In fuga da parenti dopo la morte dei genitori, inseguendo il sogno di un successo sui campi di calcio, spinti da un parentato che tramite loro insegue un minimo di reddito e di benessere, in fuga da carestie e magari guerre o semplicemente da un destino che pare senza futuro. Viaggi diversi, percorsi complicati, lunghi e pericolosi per molti.

Ognuno però con il proprio carico di speranza, obbligati a imbarcarsi su un gommone che può sgonfiarsi da un momento all’altro e far naufragio poche miglia dopo aver lasciato le coste del Nord Africa. Per tutti quelli che arrivano lo stesso destino, una protezione e percorsi di integrazione sino al 18° anno di età grazie alla legge n. 47/17 che ha posto le basi per un sistema di protezione e inclusione uniforme, ma poi, una volta diciottenni, gli si dice “e ora arrangiatevi”. Dal 2015 ad oggi in Italia di ragazzini ne sono arrivati più di 60 mila (circa 6400 nel 2019). Il 60,2% di loro arriva quando ha 17 anni, i sedicenni costituiscono quasi un quarto del totale, l’8% ha 15 anni e il 7% ha meno di 15 anni. Decine di migliaia di ragazzi dal 2015 ad oggi, hanno compiuto i 18 anni e non sappiamo quanti hanno poi trovato una strada per l’integrazione sociale e lavorativa.

Una volta fuoriusciti dai circuiti dell’accoglienza, infatti, i neomaggiorenni patiscono la mancanza di politiche di integrazione, con il rischio concreto che il percorso di inclusione realizzato fino a quel momento vada disperso nei meandri della burocrazia, nelle norme incattivite, nei pericoli delle strade su cui devono camminare soli. Sono moltissimi quelli che si disperdono e di cui poi non abbiamo tracce. Ragazzi che vanno ad aggiungersi ai minori migranti scomparsi. Solo nel 2019 in Italia si sono perse le tracce di 5.320 minori stranieri non accompagnati. A questi va aggiunto il numero di quanti sono arrivati con sbarchi autonomi che sfuggono a ogni sistema di monitoraggio.

Sin qui i dati pur clamorosi e la sociologia, poi, come suggeriscono Anna ed Elena Granata nel loro bello e appassionato saggio che certo non si sottrae ai dati di contesto, ci sono le vite, quelle di Ani Laurent, Pabi, Fadi, Samba, Kanjura, Moussa, Omar, Sherif, Modu. Nomi, storie, volti che incontriamo sulle nostre strade, nelle nostre città, nelle nostre scuole. Bisogna tenere insieme, provare a connettere queste due dimensioni, quella di una lettura sociologica e quella della capacità di incontrare con sguardo aperto questi ragazzi.

Le sorelle Granata ci invitano a guardare loro come risorse preziose: «chi si è messo in movimento con straordinario coraggio, spesso con il desiderio di migliorare la propria vita e quella della propria famiglia, ed è sopravvissuto al viaggio più pericoloso, porta con sè risorse straordinarie oltre che un’eccezionale voglia di futuro che la vecchia e depressa Europa non solo fatica a comprendere ma che farebbe bene a non perdere». Insomma i ragazzi migranti sono uno straordinario capitale umano e culturale che non possiamo permetterci di buttare via, è il loro invito.

Ragazzini che arrivano da “Una seconda porta” come recita il titolo del romanzo di Raul Montanari il cui protagonisti sono Milo Molteni, un grande pubblicitario, le campagne sociali sono il suo pane, e Adam, ragazzino egiziano ospitato da un centro di accoglienza HoSpes, che si installa in un appartamento sfitto che Milo ha da poco acquistato. «Era come se il mondo che avevo sempre tenuto fuori dalla porta avesse trovato la chiave e fosse entrato. Era qui», constata il famoso pubblicitario che nel corpo a corpo con la storia, le bugie e le sofferenze di Adam («Non puoi sapere. Un italiano non può sapere, per sapere devi vivere», sono le parole di Adam) trae qualche conclusione sulla sua vita e sulla bolla in cui vive: «Il mondo in cui vivevo io era un’allucinazione benevola, confortante, in cui ero invitato come tutti a farmi cullare dall’idea che a essere anornale fosse la vita degli altri, non la mia. (…) Le campagne sociali mi sembravano ormai enormi foglie di fico stese a coprire le vergogne di tutti (…) Di mestiere faccio il procacciatore di alibi a me stesso e a tutti». Un romanzo avvincente quello di Montanari che disegna un ritratto collettivo dell’universo progressista rendendolo dinamico usando come detonatore la vicenda drammatica che viene raccontata nel libro con meccanismi anche tipici di un romanzo poliziesco.

Milo si pone una domanda che riguarda tutti: è possibile fare del bene? È possibile accoglere? Se sì come?

Domande a cui provano a rispondere Anna ed Elena Granata che cercano di disegnare e prefigurare un modello possibile partendo dalla loro esperienza di famiglie che in percorsi informali e liberi hanno accompagnato a Milano una trentina di neo maggiorenni stranieri. Ne esce il ritratto di una comunità civile e accogliente che subentra ai servizi sociali, senza entrare in sovrapposizione, una comunità autopromossa e sussidiaria rispetto al ruolo del pubblico, reticolare e soprattutto replicabile, capace di fare rete e costruire relazioni accompagnando i ragazzi accolti nelle famiglie verso l’autonomia abitativa e lavorativa.


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