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Alla scoperta di Eraldo Affinati

Esce un libro dedicato alla parabola dello scrittore romano, che da tanti anni ha scelto di dedicarsi all’insegnamento agli immigrati, anche come esperienza che ripara alla ferita del vivere. Una parabola appassionata e fuori dagli schemi, che restituisce un senso umano al mondo della lettertura

di Giuseppe Frangi

«In Siberia andò a vivere da un muzìk ricco, a servizio e adesso vive là. Lavora nell’orto del suo padrone, e insegna ai bambini e accudisce ai malati». È il finale di Padre Sergij, il racconto di Leone Tolstoj. Eraldo Affinati ammette, che a 40 anni dalla prima lettura, ancora oggi si commuove davanti a queste pagine. «Avevo intuito il possibile approdo ad una nuova prospettiva basata sulla gratuità, il realizzarsi inaspettato di quella energia del dono gratuito del proprio talento».

Sono parole che troviamo in un libro insolito e mobilitante dedicato proprio alla parabola umana e letteraria di Eraldo Affinati. Lo ha scritto uno studioso, docente universitario a Tor Vergata, Fabio Pierangeli (“Eraldo Affinati. La scuola del dono”, Studium edizioni). Il suo punto di vista è insieme quello del grande conoscitore, ma anche dell’uomo di cultura che ha condiviso la scelta di campo fatta da Eraldo Affinati. Nell’introduzione Pierangeli inquadra con chiarezza la questione di una generazione di scrittori di cui Affinati fa parte: «C’è stato il passaggio sofferto di tutta una generazione da un radicalismo etico all’ordinarietà della condizione quotidiana, sfociata in un senso di egoismo per cui la solitudine è totale oggi nella grande città». Affinati nel suo percorso ha elaborato il lutto di questa perdita di desiderio di eticità e ha concepito il suo lavoro di scrittore proprio come percorso concreto per non restare prigioniero di quell’impasse. «Da un lato sono interessato allo “scatto predatorio”», spiega Affinati dialogando con l’autore. «Dall’altro alla convenzione sociale e politica tesa a contenere la violenza umana. I grandi stili dei codici giuridici sono commoventi perché cercano di dominare la nostra natura ferina. Ogni volta che un professore spiega qualcosa ai suoi studenti, rinnova quel processo millenario»

A suo modo Affinati racconta di avere sperimentato questa “natura ferina” nella mancanza di rapporti con i propri genitori. Ammette di non aver mai avuto un adulto a cui appoggiarsi e di aver saputo guadagnare i valori ai quali oggi si aggrappa, guadagnandoli a spizzichi e bocconi. «Insegnare agli orfani», racconta, «per me significa eseguire il compito che mio padre e mia madre omisero di svolgere. Deve essere questa la ragione per cui non ho figli. Se ne avessi avuto uno, non avrei avuto le mani libere per riparare il danno che ho scoperto».

È da questo dato di dolore che si genera un percorso letterario assolutamente generoso, originale, coerente fin nella sequenza bellissima dei titoli dei libri pubblicati in questi anni. Scrive Pierangeli: «I libri di Affinati mostrano una progressione per la quale l’immagine del tempo donato assume contorni sempre più necessari, nella storia personale e in quella della società in cui si vive». Per questo insegnamento e avventura letteraria sono esperienze inscindibili in Affinati. L’insegnamento è un baluardo che tiene al riparo dalle «passioni deliranti». «Credo di essere un vitalista», confessa. «Ma non sono un edonista. L’energia la trovo negli adolescenti immigrati. Da lì scatta un’emozione religiosa. Non una risposta risolutiva, piuttosto una febbre, un voler cercare la radice del nostro stare al mondo».

Il libro si completa con un’utile appendice dove sono schedati i libri di Affinati, accompagnati da alcune significative recensioni. Come quella di Carlo Ossola per “Peregrin d’amore”, un libro sui luoghi di 40 scrittori italiani, scritto pensando anche al ragazzo immigrato che si accosta alla tradizione italiana. Scrive Ossola: «La letteratura può, come questo libro dimostra, ancora offrire ragioni di vita, rispondere ogni giorno alle insidie della nausea del vivere e del “valore dell’arte”».


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