Welfare & Lavoro

I 30 anni del centro di accoglienza San Luca di via Negarville a Torino.

Un centro di accoglienza non è un luogo di delega ad alcuni samaritani per tutti i problemi di un quartiere, ma l’accogliere deve essere uno stimolo per tutta la società

di Fabrizio Floris

La periferia è una sorta di luogo psichedelico dove i riflettori della cronaca si accendono e si spengono come le luci intermittenti delle discoteche dove è impossibile distinguere l’emergenza dalla quotidianità, l’embrione dalla cenere. Non sono state fatte telecronache, countdown e conferenze stampa, ma il 12 febbraio ricorrevano 30 anni dall’apertura del centro di accoglienza San Luca di via Negarville a Torino.

Il momento è stato ricordato venerdì 21 febbraio nel Salone parrocchiale alla presenza delle istituzioni che hanno passato più tempo ad ascoltare che a parlare. L’assessore e vice-sindaco della città di Torino Sonia Schellino ha ricordato la connessione tra l’accoglienza e la Costituzione in particolare in riferimento all’articolo 3 “la Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione”.

Il direttore della Caritas Pier Luigi Dovis si è soffermato sul legame tra fede e accoglienza a partire dalla parola ospite “qualcuno non solo da accogliere, ma a cui devi fare spazio, quello che dai a lui è tolto a te. Un centro di accoglienza non è un luogo di delega ad alcuni samaritani per tutti i problemi di un quartiere, ma l’accogliere deve essere uno stimolo per tutta la società. Per questo non si dovrebbe dire che bravi ai volontari, ma che fastidio”. La presidente della circoscrizione Luisa Bernardini ha sottolineato l’importanza sul territorio di un luogo dove scoprire che l’altro è un valore non un problema. Pasquale Ciavarella, attuale referente, ha raccontato com’è nato il centro. “Correva il secondo mese dell’anno 1990 quando l’allora parroco don Matteo Migliore insieme ad un gruppo gagliardo di volontari decise di avviare un centro di accoglienza per cittadini stranieri. Un caso unico perché la struttura venne aperta dentro le mura della parrocchia, in aule contigue con l’oratorio che in passato erano state destinate a scuola professionale.

Da quel giorno sono passati 30 anni, 420 mila pernottamenti, 500 mila pasti distribuiti a ospiti provenienti da tutti i continenti, il cui flusso è stato specchio dei movimenti migratori internazionali: prima soprattutto Albania, Marocco poi Romania, Nigeria e negli ultimi anni molta Italia e molti detenuti, ma non è un’opera caritatevole, ma è insita nel Vangelo”. Una struttura di volontariato puro aperto alla collaborazione con gli enti pubblici, le reti del terzo settore, ma con una sola vera interfaccia: “il volto che hai davanti e ti interpella” ha proseguito Ciavarella. Don Matteo Migliore ha ricordato le lenzuola che venivano lasciate al fondo della chiesa “così chi voleva le portava a casa e le lavava. Una volta in una situazione di emergenza ospitammo una donna con tre bambini al mattino si vedeva su quel lenzuolo la posizione dei corpi, come una sindone”.

Un momento di ricordi e di rilancio per don Corrado Fassio attuale parroco che ha in carico la responsabilità giuridica del centro, di due
parrocchie e della testimonianza del Vangelo a 18 mila persone. Volontari sempre più anziani, necessità economiche e pratiche come la sostituzione del furgone che serve per recuperare il cibo e altri beni necessari per l’accoglienza. Un appello fiducioso basato simbolicamente per Pasquale Ciavarella “su quel tabernacolo che sta incastonato nell’angolo del muro che connette le stanze dell’accoglienza e la cappella
feriale”.

Foto credits Sanjay Sankar


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