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Torino Social Factory: la fabbrica dell’innovazione sociale

Il progetto sta interessando sia soggetti del Terzo settore strutturati, sia soggetti emergenti: i primi con un modello di business basato sulla erogazione di servizi sociali in regime di accreditamento; i secondi collocando nel dominio dell’impresa passioni e inclinazioni che tradizionalmente sarebbero stati trattati secondo una logica di pura mutualità e volontariato

di Claudio Calvaresi

A gennaio si è svolto a Torino l’evento di presentazione di 15 progetti di innovazione sociale, nell’ambito di Torino Social Factory, la misura di inclusione sociale del Programma Operativo Nazionale Città Metropolitane 2014-2020 (PON Metro) di Torino, che sostiene, attraverso un servizio di incubazione e un sostegno finanziario allo start up, la nascita e il consolidamento di idee di imprenditorialità sociale, promosse da soggetti del terzo settore. Il percorso di incubazione, realizzato da Make a Cube³ nella prima metà del 2018, ha accompagnato 25 idee progettuali nello sviluppo della loro fattibilità tecnica ed economico-finanziaria. Di queste, 15 sono state finanziate, per un importo pari a 1 milione e mezzo di euro.

I progetti di Torino Social Factory sono il campione più avanzato di esperimenti di innovazione sociale nelle periferie che abbiamo a disposizione in Italia. Per questo meritano di essere osservati da vicino.

Innanzitutto, per i temi che toccano e ancor di più per il modo in cui li trattano. L’aspetto interessante infatti non sta tanto nel loro contenuto, largamente praticato dai tanti “segnali di futuro” presenti nel nostro Paese: welfare di comunità, inclusione sociale, cibo e agricoltura sociale, conciliazione dei tempi di vita, neo-artigianato, nuove forme di produzione e offerta culturale, piattaforme di condivisione, economia circolare, riattivazione di spazi, ecc. Più rilevanti, sono le “proposte di valore”, le forme originali con cui li associano nella composizione del loro menù: nel progetto Loving the Alien (foto di apertura) l’immaginario del fantastico diviene veicolo di inclusione e di riqualificazione dello spazio pubblico; in Glocal Factory, il montaggio dei diversi pezzi che compongono il progetto è inconsueto, dal momento che associa gestione di uno spazio, offerta di servizi, attività di formazione e rete commerciale; le forme dell’ingaggio si fanno sperimentali, in un progetto (Abito) che chiede ai beneficiari di diventare protagonisti della sua riproduzione; sofisticato è l’approccio con cui Cuqù passa dalla fase di indagine a quella di progettazione, mettendo a punto, a partire da 125 interviste a genitori sul tema della gestione quotidiana ed educativa dei figli, una proposta che coniuga risposte a bisogni di conciliazione e socialità e protagonismo delle famiglie di origine immigrata; quando Tricircolo fa incontrare necessità sociali e competenze produttive attorno all’offerta di spazi e di servizi di incubazione e comunicazione avanza una originale combinazione tra problemi, risorse e opportunità di intervento; la crescita di un nuovo ramo di impresa e lo sviluppo di un nuovo marchio avvengono, nel caso di Non di solo pane, mediante un percorso di inclusione lavorativa e promozione delle competenze di giovani immigrati e rifugiati.

La cifra di questi progetti è che l’innovazione di prodotto avviene sulla base della innovazione di processo. I promotori definiscono (o ridefiniscono) la propria funzione come imprese sociali, che producono valore economico attraverso la generazione di impatto sociale, utilizzando i progetti come test.

L’aspetto interessante è che questa prova di innovazione riguarda sia soggetti del terzo settore strutturati, sia soggetti emergenti: i primi sono sollecitati su una prospettiva progettuale nella fase di esaurimento del modello di business basato sulla erogazione di servizi sociali in regime di accreditamento; i secondi mettono a fuoco il proprio profilo collocando, nel dominio dell’impresa, passioni e inclinazioni che tradizionalmente sarebbero stati trattati secondo una logica di pura mutualità e volontariato. I progetti di Torino Social Factory sono – direbbe Giovanni Carrosio – “innovazioni emancipative”, che cercano il loro campo di esercizio nello spazio tra mercificazione e forme oppressive di protezione sociale: il civismo diventa lavoro e impresa di natura sociale, riformulando, nelle periferie, il confine tra sfera dell’economia e sfera della società.

I progetti di Torino sono inoltre i primi giunti a maturazione tra quelli promossi grazie alla misura dedicata all’inclusione sociale prevista nel PON. Ciò che è possibile osservare qui rappresenta un riferimento sia per le progettazioni in corso in altre città, sia per la modellizzazione di questo esperimento dentro future politiche analoghe.

Sulla prima dimensione, occorre essere consapevoli che a Torino si danno almeno un paio di condizioni molto rilevanti. La prima è che Torino Social Factory è un elemento di una strategia più complessiva di rafforzamento delle pratiche di innovazione sociale nella città, che si alimenta di altre progettualità, di attori dedicati, di veicoli finanziari e dispositivi organizzativi. Torino Social Impact, «l'ecosistema per l'imprenditorialità e gli investimenti ad impatto sociale», è l’esito più coerente di questa strategia. La seconda condizione è che i progetti possono contare su una lunga stagione di politiche per le periferie, che ha avuto nella città, a partire dagli anni Novanta, il principale centro di sperimentazione, nel corso della quale il fuoco dell’attenzione si è spostato dalla riqualificazione fisica, attraverso grandi interventi unitari su quartieri-bersaglio, alla creazione di centri di erogazione di servizi per e con la comunità (le Case del Quartiere), al sostegno alla progettualità dei soggetti no profit nelle aree bersaglio.

Entrambe queste condizioni suggeriscono che il lavoro da fare, per molte città, riguarda la sperimentazione di iniziative analoghe a Torino Social Factory, insieme alla progettazione di dispositivi che possono trasformarle in programmi ordinari. Una indicazione fertile è quella che emerge dall’ultimo rapporto di Urban@it, curato da Giovanni Laino, con l’idea di creare “agenzie sociali di quartiere”, che operino come strutture stabili di intervento nei quartieri difficili secondo logiche da punto di ingresso ai servizi (di cura, assistenza, istruzione e formazione, lavoro, abitativi, ecc.), ma capaci anche di progettazione integrata e montaggio di processi di sviluppo locale.

Con riferimento alla seconda dimensione, l’ipotesi di conferma e rafforzamento di un programma operativo per le città metropolitane nel prossimo ciclo dei fondi strutturali 2021-27 suggerisce che da Torino conviene apprendere per modellizzare e rilanciare. A questo proposito, segnalo tre prospettive.

La prima è che i progetti di Torino permettono di osservare la connessione non semplice tra azioni orientate alle persone e azioni orientate allo spazio. A quali condizioni, soggetti del terzo settore e imprenditori civici divengono attori della rigenerazione dei quartieri difficili? L’ipotesi di Torino è che ciò richieda trasferimento di competenze, supporto finanziario e un regime di governance condivisa, sostenendo dei primi lo sforzo di cambiamento e trattando come un policy tool la capacità dei secondi di produrre utilità pubblica. Al centro di questa prospettiva vi è la questione della gestione dei beni comuni per generare nuove economie sociali. Le sfide che questa prospettiva incrocia articolano il nodo della relazione tra pratiche di innovazione e spazio urbano: la riattivazione degli asset pubblici, come meccanismo di mobilitazione e generazione di valore sociale per comunità poste a diverso livello: dal quartiere alla città; le forme di territorializzazione del lavoro, dell’abitare e dei servizi; i nuovi modi di fare impresa e la costruzione di filiere economiche urbane attorno all’economia sociale, alle imprese di comunità, all’agricoltura sociale, al neo-artigianato, alla produzione e distribuzione di energia sostenibile, ecc.; la finanza di impatto e gli strumenti di investimento per le imprese sociali la cui capacità di produrre benefici collettivi è legata alla loro capacità di agire secondo un approccio place-based.

La seconda prospettiva si interroga sui risultati in termini di costruzione e rafforzamento delle reti cui progetti di questa natura possono dare luogo. Nella crisi dei corpi intermedi e nel declino dei grandi soggetti di organizzazione della domanda sociale, sembra emergere una nuova domanda di intermediazione che potrebbe essere interpretata da nuovi broker sociali. Iniziative come Torino Social Factory prendono sul serio questa sfida: occorrerà una attenta strategia di valutazione per identificarne gli effetti prodotti sui network degli attori, in termini di densità e ampiezza. La suggestione è già nell’agenda del governo urbano, soprattutto a Milano. Ciò interroga le politiche pubbliche, sfidate a dare spazio, riconoscere, valorizzare e fornire supporto all’azione sociale diretta, che è quella «forma d’azione che “politicizza” il quotidiano, non individualizzando la partecipazione politica ma personificandola» (Bosi e Zamponi 2019, p. 24): da un lato, si mette in gioco la relazione con la dimensione locale, perché l’azione sociale diretta è radicata territorialmente, ma ha bisogno, per esprimersi, di interazioni non locali, anche molto estese in senso verticale; dall’altro, si richiedono, alle politiche pubbliche, capacitazioni, regolazioni abilitanti, cura, attenzione, tempo e diplomazia (Latour 2017).

La terza prospettiva che si apre è quella dell’apprendimento. Torino Social Factory ha previsto una attività di incubazione per le idee progettuali; l’iniziativa analoga nel PON Metro Milano è chiamata la Scuola dei Quartieri, con attività di riconoscimento, emersione e formazione avanzata per tutti quelli che, non essendo un soggetto strutturato, intendono intraprendere una avventura progettuale; qualcosa di analogo sta per partire nell’ambito della stessa misura del PON Metro di Napoli. Le politiche di inclusione sociale nelle periferie che incrociano i protagonisti dell’azione sociale diretta sono iniziative di educazione alla cittadinanza, danno luogo a forme di ingaggio attraverso l’apprendimento. Però i dispositivi che si stanno costruendo non sono solo indirizzati a “educare i beneficiari” della misura del Programma operativo, ma retroagiscono sullo stesso soggetto pubblico che le promuove. Sono esercizi locali di crescita delle capacità, di supporto alla costruzione di un orizzonte più ampio per progetti spesso fragili, che chiedono alle politiche di “rallentare”, di non correre alla soluzione prêt-à-porter, ma di preparare le condizioni per l’azione: decifrare la complessità, migliorare il problem setting, testare e mettere alla prova, preparare all’implementazione. Sono dispositivi che – come notava Paolo Fareri a proposito degli Urban Center negli Stati Uniti nella prima metà degli anni Novanta – provano a stabilire un circuito virtuoso tra education e advocacy, tra costruzione di competenze e mobilitazione.


*senior consultant di Avanzi


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