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Cooperazione & Relazioni internazionali

Il sud del mondo senza difesa contro il coronavirus

Bruno Abarca, professore associato di Sanità pubblica nell’ambito di emergenze umanitarie complesse alla George Washington University e tecnico salute di Azione contro la Fame: "Nessuno si occupa dell'impatto della pandemia su America Latina, Africa e Medioriente, dove non ci sono le condizioni minimi per assicurare sanificazione e distanziamento sociale". L'intervista

di Redazione

Bruno Abarca è professore associato di Sanità pubblica nell’ambito di emergenze umanitarie complesse alla George Washington University. Qui studia le migliori modalità per affrontare, in alcuni scenari del mondo, la presenza contemporanea di più criticità: spostamenti di massa, conflitti, violenze. È anche un “tecnico” dei settori salute e nutrizione (Nutrition and Health Technical Adviser) di Azione contro la Fame, organizzazione umanitaria internazionale leader nella lotta alla fame e alla malnutrizione. Oggi, Abarca fa parte del team targato ACF che sta preparando la strategia per far fronte alla diffusione della pandemia nei Paesi in cui l’organizzazione è impegnata. «Ognuno di noi è consapevole di ciò che sta accadendo in Europa, negli Stati Uniti, in Asia. Ma sono pochi i fari puntati verso alcune aree dell’America Latina, dell’Africa e del Medioriente. Qui il coronavirus si aggiungerà ad altri problemi strutturali esistenti: ad esempio, in Congo, le popolazioni si scontrano già con l’Ebola; in Siria, con la guerra civile in corso; nel Sud Sudan la tregua vacilla; altri Paesi non dispongono di un sistema sanitario adeguato e subiscono le crisi legate alle emigrazioni. A tutto ciò, su aggiunge pure COVID-19».


Il coronavirus colpirà anche i Paesi del Sud?
Molti ritengono che in questi Paesi la pandemia potrebbe non influire tanto, in ragione di popolazioni più giovani, ma si tratta una prospettiva non realistica. In realtà tali aree sono molto più a rischio, per altri motivi. Il livello di trasmissione potrebbe rivelarsi più elevato perché le persone vivono in aree affollate, in cui non viene garantita la “distanza sociale”. È, inoltre, più probabile che l’emergenza si faccia più seria in luoghi in cui la malaria, la tubercolosi e altre malattie infettive sono presenti. E, poi, forse l’impatto di COVID-19 risulterà più grave nelle persone già colpite dalla malnutrizione.

Anche i bambini?
Al momento mancano i dati per comprendere in che modo il virus avrà un impatto su di loro. In Europa e negli Stati Uniti il virus colpisce, maggiormente, le persone anziane che già presentano altri problemi. Dobbiamo ora chiederci cosa accade se esso viene contratto dai bambini con malnutrizione o malaria. Potrebbe essere una catastrofe.

C'è una capacità di risposta?
È estremamente difficile, in queste zone, aumentare l’apporto di personale sanitario, ma nonostante ciò, la nostra capacità di risposta è enorme. Stiamo parlando di luoghi in cui il personale sanitario è già fuggito dal Paese, con strutture sanitarie distrutte o con pazienti che non si avvicinano ai centri perché sono posizionati cecchini nelle vicinanze. Qui la fuga dei cervelli ha un percorso molto chiaro: da Sud a Nord, rendendo la soluzione al problema più difficile.

Le misure che sono state attuate in queste settimane possono essere applicate in questi Paesi?
Tali provvedimenti non sono realistici nei Paesi in cui opera contro la fame. Il telelavoro non può essere considerato come una possibilità in luoghi come l’Africa sub-sahariana. Qui restare a casa significa interrompere l’attività produttiva in un sistema che dipende da ciò che si esporta. In Libano, con un insediamento di un milione di rifugiati siriani e cinquecentomila palestinesi, in condizioni precarie all’interno di tende, inoltre, non è possibile isolare un paziente.

In che modo è possibile agire in questi luoghi con misure di sicurezza?
Se in Europa procurarsi una bottiglia di soluzione alcolica è difficile, in questi luoghi è impossibile. Non esistono misure minime di protezione per il personale sanitario. Ci sono molte incognite. In Europa abbiamo un sistema sanitario forte che garantisce un controllo epidemiologico notevole; in molte aree, ciò non avverrà. Quando arriverà la prima morte per coronavirus in uno di questi Paesi, sicuramente ci saranno già centinaia di casi, che avranno contagiato altre migliaia di persone. Ma non lo sapremo mai.

Come stanno organizzando le ONG come Azione contro la Fame?
Lavorando per rispondere all’emergenza con strumenti a supporto delle missioni, dando la priorità ai trattamenti salvavita con distribuzione di cibo o acqua che non possono essere interrotti. Possiamo continuare a gestire tali attività senza rischio di contagio, rafforzando le misure di sicurezza.

Quale sarà il ruolo delle comunità locali?
Sarà fondamentale. Le organizzazioni internazionali le sosterranno, ma esse svolgeranno un ruolo davvero importante. È una delle lezioni apprese dalle precedenti pandemie. In Inghilterra, gli operatori sanitari locali sono stati selezionati per trasmettere messaggi nelle loro aree di pertinenza per proteggere, così, le persone più a rischio. È, del resto, noto che la “comunicazione verticale” non raggiunga sempre le persone in modo adeguato.


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