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Bambini, non problemi: sull’inclusione scolastica si può fare di più

In queste settimane di isolamento a causa dell’emergenza Covid19, sono i bambini che vivono in condizioni di fragilità i più esposti al pericolo di perdersi tutto ciò che la scuola può offrire

di Andrea Genzone

Li chiamano alunni difficili, problematici, fragili. Sono quei bambini e ragazzi che fanno più fatica ad imparare, integrarsi nella classe, tenere un comportamento conforme alle aspettative. Spesso provengono da contesti familiari conflittuali, disgregati, segnati da povertà economica e culturale. Talvolta vivono in quartieri difficili e possono avere alle spalle storie di migrazione, sradicamento, discriminazione. In altri casi le difficoltà possono essere legate a disabilità più o meno gravi, disturbi dell’apprendimento o dello spettro autistico.

Tutti loro partono con una pesante eredità, ma hanno una stessa ancora di salvezza, almeno in teoria. Si chiama scuola, ed è il luogo in cui si impara a vivere con se stessi e con gli altri, ad affrontare le difficoltà e a trovare soluzioni.

In queste settimane di isolamento a causa dell’emergenza Covid-19, sono proprio loro i più esposti al pericolo di perdersi tutto ciò che la scuola può offrire. Dal semplice, ma importante, tempo passato lontano dal contesto di origine, alla relazione con in compagni; passando per la didattica, a cui forse non riusciranno a stare dietro attraverso i mezzi tecnologici, se accanto non hanno qualcuno in grado di guidarli e incoraggiarli.

In questo senso, pur con tutte le difficoltà che la vita in comunità comporta, i bambini ospiti delle comunità di Arché hanno questa guida, sono coinvolti dalle educatrici in attività creative, hanno un giardino all’aperto. Per gli altri la situazione è più complessa, spesso per le scuole è difficile contattarli e motivarli.

Al di là di questo momento eccezionale, il tema è comunque sempre aperto: come si pone la scuola italiana rispetto all’inclusione degli alunni più fragili? È in grado di offrire a tutti le stesse opportunità, prestando la dovuta attenzione alle esigenze particolari dei più fragili?

Scuola e alunni fragili: cosa dicono i dati?
Stando ai dati e ai rapporti sul tema, sembra di no, sembra che la scuola italiana non riesca a garantire pari opportunità a tutti. Secondo il rapporto di Save the Children Nuotare contro corrente: povertà educativa e resilienza in Italia “esiste una stretta correlazione tra condizioni socio economiche difficili e insuccessi nell’apprendimento. Una correlazione estremamente allarmante, se consideriamo che in Italia un milione trecentomila bambini – il 12,5% – vivono in condizioni di povertà assoluta.”

Confermano la presenza di disuguaglianze i dati Eurostat, secondo cui nel 2018 il 14,5% dei giovani italiani tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente la scuola (media europea 10,6%), evidenziando che si tratta soprattutto di alunni maschi, con cittadinanza non italiana, residenti nel Mezzogiorno e in ritardo scolastico.

Secondo i dati OCSE-PISA, inoltre, l’Italia è caratterizzata da una seria debolezza nelle competenze in lettura e scienze, correlata con l’origine famigliare e territoriale. In altre parole, le scarse prestazioni degli alunni italiani sono condizionate dall’esclusione sociale e culturale nella quale vivono.

Cosa succede nei nostri territori?
Anche Arché si trova a far fronte a questa situazione poco incoraggiante. L’inserimento scolastico è, almeno in teoria, uno dei più potenti mezzi di inclusione sociale dei minori beneficiari dei servizi di accoglienza di Arché, che spesso provengono da territori differenti da quelli in cui risiedono le comunità materno-infantili o gli appartamenti di semi-autonomia in cui hanno seguito le loro madri per essere tutelati.

Paola Ciaglia, educatrice della comunità mamma-bambino Casa Adriana, a Milano, non nasconde un po’ di sconforto: “Sono bambini che già hanno subito un trauma,” racconta, “perché vengono sradicati dalla loro scuola, dai loro amici, da tutto… L’inserimento scolastico dovrebbe essere fatto in tempo zero per agevolare la vita di questi minori.”

Invece si incontrano spesso problemi, già in fase di inserimento. Come nel caso di una bambina di seconda elementare, tutt’altro che problematica, che prima di poter iniziare la scuola ha dovuto aspettare tre settimane. Non per problemi tecnici, racconta Paola, ma perché “la scuola era prevenuta dall’esperienza di altri quattro bambini, più problematici, inseriti l’anno prima.”

Quello del pregiudizio sembra essere un aspetto importante nella vita scolastica degli alunni più fragili. Se vengono da determinati contesti, o se il loro comportamento non è conforme alle aspettative, può succedere che vengano etichettati dall’istituzione scolastica prima ancora che dai compagni. Il loro percorso rischia di essere deciso in partenza.

Eppure dal rapporto di Save the Children emerge che alcuni bambini, pur vivendo in contesti di grave disagio, “sfuggono a tutte queste previsioni e raggiungono successi nell’apprendimento paragonabili a quelli dei loro coetanei delle famiglie più benestanti.”

Perché questo avvenga, però, la scuola deve saper identificare i fattori protettivi in grado di allontanarli da un destino che appare già segnato. Guardare alla persona e alle sue risorse, offrire supporto e fiducia a seconda delle necessità.

Si tratta di un’attenzione che è ancora troppo dipendente dall’approccio delle singole scuole, spesso anche dei singoli insegnanti. Le esperienze, così, sono estremamente diversificate non solo tra territori, ma anche all’interno dello stesso territorio.

Arché ci racconta, ad esempio, un’esperienza con una scuola dell’infanzia: “C’è un bambino accolto nei nostri servizi che è arrivato a dicembre 2019; ora, al di là di tutto quello che poi è successo con il Covid-19, quel bambino non sarebbe comunque potuto andare all’asilo fino a settembre 2020, perché all’asilo se arrivi a metà anno non entri più. O meglio, è a discrezione della scuola, ma io ho fatto diverse richieste alla scuole che abbiamo intorno e nessuno l’ha preso subito”.

Situazioni come questa sono particolarmente gravi, perché la povertà educativa – e quindi l’abbandono scolastico e tutti i problemi che ne derivanoè in larga misura connessa alla privazione di opportunità di apprendimento nei primi anni d’età. Lo conferma, di nuovo, il rapporto di Save the Children, dal quale emerge che i minori di 15 anni che appartengono alla fascia socio-economica e culturale più bassa, ma che hanno frequentato un nido o un servizio per l’infanzia, hanno il 39% di probabilità in più di raggiungere un livello di competenze tale da favorire l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita.

“Nido e scuola dell’infanzia aiutano a crescere e a sviluppare una serie di competenze,” spiega Paola Ciaglia, che riporta una fatica condivisa da tutta l’organizzazione, “non è possibile che un bambino non possa frequentare l’asilo se arriva in comunità a metà anno. Eppure succede quasi sempre”. A meno che non ci si rivolga ad una scuola privata: “Mi è successo per un bambino di circa 2 anni, ho trovato una sorta di spazio giochi, tra l’altro lontano, in cui la comunità paga una retta”.

Ma l’inserimento è solo l’inizio. Un altro punto debole della scuola italiana, o almeno di alcune scuole, sembra essere la scarsa capacità – o volontà – di affrontare situazioni educative di difficile gestione. Come se fossero una seccatura, un ostacolo al regolare svolgimento delle attività didattiche.

“L’anno scorso in comunità avevamo quattro fratelli di origine rom”, prosegue Paola, “ricevevo continue chiamate dalle scuole in cui le maestre si lamentavano della loro vivacità. Erano davvero problematici, non lo nego, ma chiamavano dicendo: “Il bambino ha fatto questo, puoi venirlo a prendere?”. Oppure: “Dimmi come devo fare”. Certo, mi rendo conto che ci sono classi sovraffollate e mancano le risorse, ma la scuola dovrebbe saper gestire queste situazioni”.

In altri casi, invece, l’esperienza di Arché è più positiva: “Al nido abbiamo trovato insegnanti di una dolcezza, di un’accoglienza… Ricordo l’inserimento di un bambino in particolare che è stato difficile, non tanto per lui ma per la mamma che era in difficoltà, e l’educatrice del nido le è stata accanto, ci sentivamo tutti i giorni. Proprio un altro mondo, un altro approccio”.

Gli insegnanti, in effetti, hanno un ruolo decisivo. Secondo la relazione di monitoraggio dell’Unione Europea, le procedure di selezione e assunzione non riescono a garantire un’offerta sicura di insegnanti qualificati. L’Italia ha il corpo docente più anziano dell’Unione Europea e le limitate prospettive di carriera, unite a stipendi relativamente bassi rispetto a quelli di altre professioni altamente qualificate, rendono difficile attrarre i laureati più meritevoli.

Eppure proprio gli insegnanti potrebbero fare la differenza: “In passato ho avuto a che fare con una bambina di 6 anni” racconta l’educatrice, “a cui è stato diagnosticato un disturbo dello spettro autistico e che sulla sua strada ha trovato un’insegnante di sostegno piena di passione. Ecco a volte, al di là delle risorse e delle competenze, quello che manca a scuola in alcuni casi è la passione. Questa bambina ora parla, legge, ha imparato a scrivere. Questo episodio mi ha dato speranza”.

E di speranza ha bisogno un’istituzione come la scuola italiana che troverà nelle aule alunni (e insegnanti) che a causa della pandemia han trascorso mesi chiusi in casa; non tutte le case sono uguali e non in tutte le case si sono vissute le stesse fatiche. Per questo Arché confida in un lavoro di maggiore collaborazione, da cui trarrebbero vantaggio le scuole e la comunità, ma soprattutto i bambini. Che è poi l’unica cosa che conta realmente.

Andrea Genzone ha realizzato questo articolo per Fondazione Arché nell'ambito della collaborazione della fondazione con il blog collettivo Le Nius nato dalla volontà di proporre approfondimenti su temi protagonisti del dibattito pubblico.


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