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Educatori e forze dell’ordine: spunti per un’idea di sicurezza partecipata

«Tutti vediamo il grande lavoro che le forze dell’ordine sono tenute a fare in questa emergenza sanitaria. Pensiamo a quanto siano pregni e densi di significato sociale ed educativo anche gli interventi volti a fare rispettare le norme per il contenimento della diffusione del virus ed il rispetto delle restrizioni imposte. Sarebbe interessante capire se le forze dell'ordine hanno potuto usufruire di una formazione specifica rispetto a come agire in questa situazione particolare; se, come il nostro mondo, anche quel mondo si è interrogato su come portare avanti in situazione emergenziale le pratiche ordinarie di servizio»

di Fabio Ruta e Andrea Rossi

Nella famosa poesia Il PCI ai giovani – ispirata dagli scontri di Valle Giulia – Pier Paolo Pasolini dichiarava di simpatizzare per i poliziotti e non per i manifestanti. Descriveva i poliziotti così: “Figli dei poveri. Vengono da periferie, contadine e urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di essere stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità. La madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli, la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati); i bassi sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari…”. Questi versi di Pasolini raffiguravano la sua visione di quella temperie storica di effervescenza sessantottina, di ribellione e cambiamento: ma anche di conformismo ideologico. Tanto da far descrivere gli studenti manifestanti di allora – dal grande poeta/intellettuale e regista – come “figli di papà” a cui i giornalisti di tutto il mondo “leccano il culo". Siamo decisamente in una altra epoca, lontana dai fervori ideologici del tardo secondo dopoguerra. Ed ancor più dalla euforia del boom economico.

Quel memorabile e suggestivo ritratto delle forze dell'ordine, già allora animato da una visione poetica retorica seppur potente, non può certo essere utilizzato come identikit per i lavoratori delle forze dell’ordine. Oggi professioni più specializzate, differenziate nei ruoli e nelle prestazioni. All'interno delle forze di Polizia molto più di allora ci sono, soprattutto nei quadri dirigenziali, persone di grande cultura e preparazione; si è formato ed ha acquisito forza il sindacato di categoria; né può essere dimenticato che oggi le forze dell'ordine vedono tra le proprie fila molte donne. Tutti elementi che vanno a costruire una immagine molto più articolata, ricca e complessa di quella descritta dal poeta. Eppure resta, nell'immaginario (ma anche forse nella realtà di provenienza di parte degli operatori del settore) quel legame con le realtà e regioni più povere del Paese. Quel legame – forte e sanguigno – con le classi popolari che Pasolini ben esprimeva.

Si vuole in questo intervento lanciare alcune suggestioni e riflessioni sul rapporto tra pedagogia e politiche della sicurezza e della legalità. Anche e soprattutto in relazione a sinergie e relazioni tra figure professionali educative e forze dell'ordine, ai rispettivi curricoli formativi, alla analogia dei soggetti sociali che spesso entrambe incontrano nel loro agire: carcerati, tossicodipendenti, donne vittime di violenza e tratta, bulli, immigrati. Nei corsi per carabinieri sono state introdotte ore di etica del comportamento (fonte “L'espresso", “perché serve educare i poliziotti", 22 ottobre 2018). Dal G8 di Genova ai casi Cucchi e Aldrovandi, spesso è giunta all'opinione pubblica la problematica di episodi violenti, che hanno coinvolto esponenti delle forze dell’ordine. E per i quali si conosce la difficoltà e la lentezza nella ricostruzione delle verità giudiziarie. Ogni qualvolta simili episodi si manifestano il “j'accuse" non si limita solo agli autori materiali dei reati, ma si estende al clima ed alle circostanze che li hanno resi possibili.

In estrema sintesi è un sistema intero che vede messa in discussione la propria credibilità e subisce un “danno", un “colpo" a livello materiale, ma anche e soprattutto simbolico. E questo non è un fenomeno italiano: ma comune e diffuso in molte realtà internazionali. Un tema spesso denunciato da movimenti civili e di opinione. Denunciato anche da grandi artisti come Bruce Springsteen. Il popolare rocker americano scrisse la struggente “American Skin” riguardante la vicenda che coinvolse la polizia di New York e provocò la morte uno studente liberiano di 23 anni abbattuto dalla esplosione di 41 colpi di arma da fuoco. Appare di fondamentale importanza che nei percorsi di formazione delle forze dell'ordine di ogni Paese la cultura dei diritti umani, aspetti filosofici, pedagogici, psicologici, di mediazione culturale siano posti in dovuta evidenza. Allo stesso tempo è necessario che gli aspetti giuridici, legali e forensi connessi alla attività di professionisti della educazione siano ben presenti nel bagaglio di educatori e pedagogisti.

Posta in evidenza la assoluta gravità e intollerabilità di certi episodici fatti, sono da considerarsi inaccettabili distorsive e deformanti quelle abduzioni che tendono a fare “di tutta l’erba un fascio". Attraverso la impropria generalizzazione dei casi di “devianza", che vedono coinvolti esponenti di forze dell’ordine, alla realtà tutta. Lo diciamo da educatori e da pedagogisti: è un fenomeno molto simile a quanto avviene con le riprese di abusi interni a scuole, residenze per anziani e disabili, strutture educative. Episodi gravi da sanzionare e da stigmatizzare ma che non possono venire utilizzati per descrivere e criminalizzare intere categorie professionali: poiché costituiscono la “devianza" e non “la norma".

Rimane tuttavia una differenza fondamentale nel leggere ed interpretare queste deviazioni: infatti, se nessuno mai si sognerebbe di dire che usare violenza su di un bambino o su di un anziano inerme non siano altro che atti disumani, nei casi in cui sono le forze dell’ordine a utilizzare la violenza ingiustificata si assiste a un diffuso e non così infrequente plauso a quelle azioni scellerate. Basti pensare, per tornare all’esempio precedente, ai commenti di molti nostri esponenti politici di di livello nazionale quando balzò alle cronache la vicenda del povero Cucchi. Ci sono poi moltissimi episodi, narrati per lo più sui social, che vedono protagoniste le forze dell’ordine accusate di piccoli o grandi episodi di violenza, che ad una lettura più attenta si rivelano, nella maggior parte delle situazioni, pratiche di corretto utilizzo della forza per “messa in sicurezza“ degli stessi tutori dell’ordine o dei cittadini coinvolti. Con lo stesso metro, probabilmente, si potrebbero leggere molte situazioni di quotidianità nei Servizi Educativi che, decontestualizzate, assumono connotati impropri. Insomma, per dirla con Ivan Graziani, non sempre il fuoco sulla collina è indice di rivolta; spesso sono solo trattori che falciano il grano.

Allargando poi lo sguardo su una prospettiva più generale, è singolare come molte persone in questo periodo si scandalizzino perché il poliziotto o il vigile con “arrogante disprezzo” per le libertà individuali impedisce loro di andare nel supermercato abituale, costringendoli (che privazione intollerabile!) ad andare a quello sotto casa. Queste stesse persone rimanevano totalmente indifferenti, ad esempio, di fronte alle privazioni che subisce quotidianamente la popolazione carceraria, o addirittura applaudivano di fronte al fermo di un “negro”, di un “drogato” o di uno “zingaro” senza minimamente porsi il problema di cosa avessero o non avessero fatto costoro.

Tralasciamo qui una serie di riflessioni di stampo puramente sociologico, poiché richiederebbero approfondimenti corposi per evitare il rischio di banalizzazione. Non possiamo però evitare almeno un riferimento rapido a quelle correnti di pensiero che ritengono la violenza delle forze di polizia non una eccezione ma un dato strutturale e organico all’organizzazione dello “Stato borghese”. Non condividiamo questa posizione; ma ancora meno quella di chi contrappone in maniera manichea buoni e cattivi, i “cittadini” da una parte ed i “delinquenti” dall'altra, separati dalle forze di polizia che fanno da cuscinetto proteggendo gli uni contro gli altri. Pensiamo che il termine “cittadino” debba valere per chiunque. E con questo intendiamo dire che chiunque è portatore di diritti: anche nel momento in cui si dovesse rendere autore di un reato. Ma da questa serie di riflessioni, come ci ricorda spesso Vanna Iori, il pensiero corre velocemente verso il lato oscuro della stessa pedagogia, la cosiddetta “pedagogia nera”.

Quella "pedagogia nera" che nella storia ha assunto i volti degli universi concentrazionari e dei gulag, dei dispositivi panoptici manicomiali, della inculturazione di bambini soldato e donne kamikaze, dell'antisemitismo e dell'apartheid. Oppure di pratiche correzionali adottate anche nello spazio ristretto della dimensione famigliare, che richiamano l'immagine dell'albero storto da raddrizzare attraverso discipline disumanizzanti basate sulla paura e sulla disparità di genere. Una pedagogia nera che ricorda la metafora orwelliana del "grande fratello" sui sistemi di controllo autoritari: capace di inventare persino una neolingua per condizionare il pensiero. Dispositivi annichilenti che ritroviamo nelle riflessioni foucaultiane sul "sorvegliare e punire" e che potremmo definire, citando Hanna Arendt, come "la banalità del male".

Ma anche senza scomodare sistemi complessi abbiamo tutti presente come il cosiddetto “buon senso” ci faccia a volte tenere uno sguardo un po' troppo bonario su pratiche educative spicce: crediamo che sia esperienza comune l’aver sentito sentito espressioni tipo “ Quattro sberle ben date fanno più di tanti discorsi“ o “Ubbidisci o vai a letto senza cena“; per non parlare della mitica “pedagogia della ciabatta” o del battipanni, a seconda di cosa la madre aveva in mano. Non si vuole certo demonizzare a tutti costi la fisicità che – in totale assenza di violenza – può legittimamente stare in un intervento educativo o genitoriale, ma è altrettanto vero che questi aspetti sono spesso colpevolmente sottovalutati.

Illuminare il lato in “ombra" di saperi e discipline è necessario per avere uno sguardo sufficientemente disincantato e demistificante. Ciò non indebolisce, ma rafforza la consapevolezza della fondamentale importanza tanto del mondo educativo, quanto di quello legato al lavoro delle forze dell'ordine.

La gratitudine e riconoscenza che dobbiamo nei confronti delle forze dell'ordine non può essere espressa solo in occasione di eventi luttuosi che ne vedano vittime propri esponenti, ma deve riguardare la funzione, il ruolo, i compiti che vengono svolti nella quotidianità per la protezione delle nostre comunità. E deve essere una solidarietà attiva nel pretendere condizioni lavorative dignitose e strumenti adeguati. In questi anni le società occidentali ed europee hanno subito sanguinosi attentati del terrorismo di matrice fondamentalista islamica senza precedenti. Questa offensiva ha messo ancora di più in evidenza quanto il nostro destino, la nostra protezione e sicurezza, siano strettamente legati al lavoro ed alla efficienza delle forze dell’ordine. In prima fila, a loro rischio e pericolo. Contemporaneamente è evidente che la minaccia del fondamentalismo (ogni fondamentalismo) viene combattuta anche sul versante educativo e culturale, esempio ne sono gli interventi svolti in certe banlieue francesi e non solo, anche all'interno delle stesse comunità islamiche.

Un altro elemento che accomuna, ma segna anche una differenza, tra forze dell’ordine e “forze dell’educazione” è l’utilizzo di alcuni termini tipici: sicurezza, controllo, la stessa parola “ordine“ sono di uso comune nel linguaggio professionale di entrambe le parti, ma possono avere significati profondamente diversi. E non poche volte sono oggetto di discussione accesa proprio in ragione dei loro molteplici significati. Quando parliamo di sicurezza, ci viene in mente la difesa da aggressioni, ma insieme a questo come Educatori pensiamo subito al Welfare ed alla sicurezza sociale in senso lato. Pensiamo ad esempio al concetto di “controllo sociale” con cui crediamo che ogni Educatore si sia confrontato in più occasioni.

È innegabile che nel proprio ruolo istituzionale entrambe le figure si misurino con la dimensione del controllo sociale. Ma se da una parte è una funzione esplicita ed è evidente che si tratti di un compito prevalentemente volto alla prevenzione della criminalità, dall’altra i connotati sono più sfumati, spesso impliciti, ed entrano in maniera prepotente nella sfera dei valori personali. Ma, anche qui, la vicinanza tra le due professioni è molto più stretta di quanto potrebbe sembrare ad una prima lettura superficiale. Esercitare un controllo significa esercitare un potere. Ma se da una parte l’abuso di potere da parte di un esponente delle forze dell’ordine è facilmente individuabile, le forme con cui si presenta per gli educatori sono più subdole.

Noi non abbiamo la divisa o la pistola ma abbiamo altre armi, che non feriscono fisicamente ma che possono lo stesso fare molto male. Abbiamo spesso a che fare con persone fragili, che si affidano a noi. E in questo fidarsi è insito il rischio di accompagnarle non dove loro hanno bisogno o desiderio di arrivare ma dove a noi piace vederle, limitandone la autodeterminazione. Impostare relazioni di dipendenza, attivare processi di seduzione intellettuale che alimentano più l'ego dell’educatore che l’empowerment del nostro utente, imporre la nostra visione del mondo. Insomma, ci sono tanti modi per ledere la libertà altrui, innescando processi di omologazione e di rispetto delle regole basati più sulla coercizione che sulle scelte personali. E non necessariamente usando la violenza fisica.

Altra caratteristica che accomuna forze dell’ordine e professioni educative è quelle delle retribuzioni troppo basse, in relazione alle responsabilità ed ai rischi, alle esposizioni massive a fenomeni di stress lavorativo. Inoltre è innegabile l'apporto che molti educatori e pedagogisti hanno fornito nella storia e forniscono tutt'ora alla cultura della legalità, alla prevenzione del crimine ed al contrasto della criminalità organizzata, come alla rieducazione dei rei. Parimenti sappiamo quanto agenti delle forze dell’ordine, generali e magistrati e le loro scorte, impegnati nella lotta alle mafie rappresentino anche un esempio civile dai connotati “pedagogici". Un esempio che nel nostro Paese ha pagato purtroppo un tributo altissimo di sangue. Tutti ricordiamo Falcone e Borsellino, che con il loro sacrificio rappresentano anche a livello iconico e simbolico una potente domanda collettiva di giustizia e legalità. Una domanda che il tempo non cancella, ma rinforza. Una domanda che ha caratteristiche fortemente pedagogiche ed educative. Recuperando le accezioni etimologiche di termini come pedagogia e educazione, notiamo appunto come rimandino all’accompagnamento dell’uomo in percorsi di crescita, cambiamento, acquisizione di abitudini.

Tutto ciò ci induce a credere che steccati culturali che opponevano alcune professioni ad altre vadano superati (ed in parte forse già lo siano) concettualmente e nella pratica del confronto tra diversi approcci e diversi saperi. Molti di noi educatori storici e pedagogisti (compresi gli scriventi) hanno il loro imprinting culturale in idee di sinistra laiche, antimilitariste, antiautoritarie, basagliane ed anti-istituzionali. Altri hanno la loro ispirazione in valori ed etiche di prossimità di matrice cristiana. In parte dell’opinione pubblica le culture di riferimento di una quota di appartenenti alle forze dell'ordine vengono invece attribuite a filosofie di destra securitaria ed autoritarie.

Ma siamo davvero sicuri che sia così? Che la realtà corrisponda a questi stereotipi? Abbiamo i nostri dubbi, e crediamo che questa “gestalt" sia molto distante oggi. Molto distante dai giovani in carne ed ossa che si avvicinano tanto alle professioni educative e sociali, quanto alle forze dell’ordine. Il rischio è quello di cristallizzare stereotipi e reiterare semplicistici pregiudizi, in presenza di realtà molto più diversificate.

Oggi appare in tutta la sua evidenza quanto la sicurezza e la legalità non possano reggersi su approcci meramente autoritari e repressivi, a partire dalla evidenza delle fallimentari politiche proibizioniste in materia di droghe, prostituzione, immigrazione. Per non parlare del fenomeno del sovraffollamento carcerario, che produce sofferenza sia nella popolazione detenuta che nel personale penitenziario e di custodia. Il tema delle carceri italiane è balenato di nuovo solo momentaneamente alla attenzione delle cronache per le rivolte (durante le quali si sono verificate purtroppo diverse morti) innescatesi in seguito a misure restrittive adottate per il Coronavirus. Si impone una riflessione sulla necessità di un diritto penale minimo: che contempli la carcerazione in cella come estrema ratio, valorizzando le pene alternative e la funzione rieducativa della pena stessa. Ponendo al centro anche gli aspetti legati alla affettività e sessualità dei della popolazione detenuta. Funzione rieducativa della pena che non può essere delegata solo alle figure educative in senso stretto, ma che deve essere un faro, un principio costituzionale che informa e guida tutto il sistema.

Allo stesso tempo è in tutta evidenza come le pratiche educative, pedagogiche e formative debbano mirare ad una idea di libertà non astratta: che includa sempre ed imprescindibilmente il rispetto dell'altro. Libertà che ha come correlato inscindibile la esaltazione del principio di responsabilità e che collega l'individuo alla comunità a cui appartiene; ricordandogli i vincoli di reciprocità.

Da questa idea di cittadinanza può nascere una filosofia di sicurezza partecipata. Sicurezza come sappiamo, è pure avere quartieri vivi anche di notte e periferie illuminate. Sicurezza è sviluppo di comunità e solidarietà condominiale, di scala, di pianerottolo. La legalità si costruisce anche attraverso la educazione tra pari in contrasto al bullismo, al gioco d'azzardo patologico, al consumo di sostanze. Sicurezza è anche un campetto di calcio rimesso a nuovo tra i casermoni di periferia ed una educativa territoriale di cambiamento. Così come un approccio con conoscenze educative può essere parte pure di un intervento di fermo di polizia, in occasione di rapporto con fasce a rischio, microcriminalità, devianza minorile. Noi tutti oggi vediamo il grande lavoro che le forze dell’ordine sono tenute a fare in questa emergenza sanitaria dovuta al Covid-19. Pensiamo a quanto siano pregni e densi di significato sociale ed educativo anche gli interventi volti a fare rispettare le norme per il contenimento della diffusione del virus ed il rispetto delle restrizioni imposte. Tutte le domande e le riflessioni poste, in maniera sin troppo affastellata nel fluire di questo intervento, avrebbero bisogno di ben altre “messe a fuoco".

Sarebbe interessante ad esempio, non siamo sufficientemente informati su questo tema, capire se le forze dell'ordine hanno potuto usufruire di una formazione specifica rispetto a come agire in questa situazione particolare; se, come il nostro mondo, anche quel mondo si è interrogato (pensiamo sia così) su come portare avanti in situazione emergenziale le pratiche ordinarie di Servizio. Innescare su questi temi una riflessione comune che sfoci poi in un confronto più ampio rispetto ai vari temi qui trattati. E, perché no, pensare in futuro a percorsi formativi integrati che possano aiutare le parti a comprendere le reciproche esigenze. Ambienti accademici, associazionismo e sindacati, agenzie di formazione potrebbero portare il loro contributo a una riflessione comune. Che sostenga tanto i lavoratori in divisa, quanto quelli della educazione. E che produca cambiamenti positivi per la società verso la quale il loro impegno ed il loro lavoro si rivolge.

*Fabio Ruta, Vice Presidente Nazionale Associazione M.I.L.L.E.

**Andrea Rossi, Presidente Nazionale Associazione M.I.L.L.E.

Photo by Daniel Falcao on Unsplash


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