Cooperazione & Relazioni internazionali

La mascherina di Silvia e quella di tutti noi

L’ansia di far rientrare l’altro in uno schema da poter codificare, la fretta di etichettare le persone che si hanno davanti o di cui si è solo sentito parlare sembrano essersi impadronite di molti. Andiamo in giro con mascherine chirurgiche per proteggerci dal pericolo di un possibile contagio, ma di maschere ne abbiamo molte, che con la pandemia non c’entrano: la maschera del pregiudizio, la maschera del rancore, la maschera del disprezzo per il diverso

di Asmae Dachan

A leggere oggi Luigi Pirandello, sembrerebbe che l’autore sia ancora qui con noi e che di fronte alla cronaca delle ultime ore abbia deciso di scrivere queste parole: “Prima di giudicare la mia vita e il mio carattere, mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare”.

L’ansia di far rientrare l’altro in uno schema da poter codificare, la fretta di etichettare le persone che si hanno davanti o di cui si è solo sentito parlare sembrano essersi impadronite di molti. Siamo di fronte a una sorta di manicheismo moderno, dove non c’è spazio alcuno per le sfumature e ci si erge con facilità a giudici, scrivendo impietose condanne. È proprio nelle sfumature, invece, che si coglie la profondità e la complessità della natura umana. Come quando si cerca di leggere tra le rughe di una persona anziana per scoprirne la storia, senza limitarsi a osservare solo la sua chioma canuta. Bisognerebbe riscoprire il valore dell’osservazione, imparare a leggere il linguaggio non verbale, riflettere, ascoltare, e come scriveva Pirandello, mettersi nelle scarpe degli altri.

Andiamo in giro con mascherine chirurgiche per proteggerci dal pericolo di un possibile contagio, ma di maschere ne abbiamo molte, che con la pandemia non c’entrano: la maschera del pregiudizio, la maschera del rancore, la maschera del disprezzo per il diverso. Pirandello lo scriveva magistralmente: “c’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno”. Ci si senti spaventati da quella nudità che è la solitudine e si cerca una maschera nell’omologazione. Le maschere culturali e morali, a differenza di quelle protettive, coprono integralmente gli occhi, lasciando che le palpebre chiuse ripetano all’infinito le immagini codificate che non mettono a disagio o in discussione il proprio io, con il suo bagaglio di piccole e irremovibili certezze. Ci vuole forza a togliersi la maschera e guardare la realtà da un punto di vista diverso. Quella stessa forza con cui ieri, dopo diciotto mesi di prigionia, una liberazione non senza rischi, e un lungo viaggio, Silvia Romano si è tolta la maschera dal volto per regalare a chi era lì ad attenderla un sorriso. Non il sorriso timido e dolce di uno sguardo, ma quello forte, entusiasta e fiero di chi ama la vita e sorride con gli occhi e con la bocca, con le mani che salutano e i piedi che si muovono con velocità. Un sorriso che è voglia di comunicare, desiderio di vicinanza e contatto umano. L’espressione di una persona che torna a casa, all’abbraccio dei propri cari, alla propria vita da giovane donna libera, che non esita ad andare incontro e stringere le mani di chi è intorno a lei.

Solo se non ci si toglie la maschera dagli occhi, non si coglie in quelle azioni una straordinaria voglia di vivere e un sollievo tanto agognato. Silvia è viva e libera e lo comunica con i suoi gesti, che nulla hanno a che vedere con i gesti di una persona costretta, mortificata o improvvisamente vocata a una visione oscurantista della vita e del mondo. Nel togliersi la maschera dal volto Silvia si è messa a nudo con i suoi ventiquattro anni, il suo coraggio e la sua voglia di chiudere questo capitolo complicato della sua vita. Un gesto liberatorio e generoso, che dovrebbe spingere chi la osserva a non assumere un atteggiamento morboso, a fare un passo indietro, a non invaderne gli spazi personali, cercando di stigmatizzarne il pensiero e i sentimenti, rendendola di nuovo prigioniera, pur senza catene, di parole dense di veleno e condanna. Sembrano scritte per Silvia anche queste parole di Pirandello: “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”, e immaginando che l’autore le stia dedicando una lettera, la concluderebbe così: “La vita non si spiega, si vive”. E Silvia vive.


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