Welfare & Lavoro

Fine del lockdown, ma i volontari restano fuori dalle carceri

Negli istituti di pena del Paese, la fase 2 si è fermata ai cancelli d’ingresso. Tutto è rimasto immobile. Ornella Favero (presidente Cnvg): "Riaprire al volontariato significherebbe riportare in cella la funzione riabilitativa della pena. Invece per noi il blocco rimane". L'inchiesta

di Luca Cereda

Lunedì 18 maggio riparte l’Itala, sostenuta dal decreto-rilancio che prevede tante misure per accompagnare la fase 2, ma «non riaprono le carceri, in modo particolare restano ancora fuori migliaia di volontari». A dirlo è Ornella Favero, fondatrice e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti e guida della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (CNVG). Negli istituti di pena del Paese, la fase 2 si è fermata ai cancelli d’ingresso. Tutto è rimasto immobile. «Riaprire al volontariato significa infatti riportare in carcere la funzione riabilitativa della pena. Le istituzioni hanno cercato la strada più semplice anche con le visite, aprendo ai parenti con il contagocce: noi dobbiamo lottare e muoverci». Così, se il Governo cerca di scongiurare una grave crisi economica, non ferma nelle carceri l’emorragia di umanità.


Carcere e volontariato: cosa succede dal 18 maggio?
Un colloquio con un familiare in presenza garantito ai detenuti tra il 19 maggio e il 30 giugno, il tutto sulla base della discrezionalità dei direttori degli istituti di pena, e la messa al bando dei volontari penitenziari che continua a tempo indeterminato. È questo il riassunto che Favero tratteggia dell’articolo 4 dell’ultimo decreto ministeriale approvato anche dal Parlamento. «Questo periodo ha messo a nudo una fragilità estrema e un’inefficienza del sistema carcere che già si palesava in tempi normali e che funzionava in qualche modo per la spinta del mondo del volontariato». Questo il commento di Guido Chiaretti, membro del direttivo della CNVG, coordinamento che rappresenta enti, associazioni e gruppi impegnati nel volontariato nell’ambito della giustizia, e presidente di Sesta Opera San Fedele, una delle più antiche associazioni di assistenza carceraria operanti in Italia.

Inconcepibile e incomprensibile la scelta del Governo di lasciare ancora fuori dalle carceri il volontariato. Riavviare in sicurezza le attività e gli incontri, non solo con i familiari, ma anche con i volontari non è solo utile ma necessario, oggi. «Ce n’è bisogno più che mai. Le istituzioni e le amministrazioni hanno però un atteggiamento attendista e le regole sono dalla loro parte», sottolinea invece Favero. Questo accade anche se ci sarebbero tutti i dispositivi di sicurezza. Anche perché ogni giorno, entrano in carcere circa 37 mila persone tra agenti, uomini del personale sanitario e amministrativo. «Sospendere all’infinito le attività dei volontari e delle associazioni rende il carcere un deserto». E rende la vita dei detenuti un vero deserto.

Il re è nudo: il volontariato è essenziale al sistema-carcere
«Se le istituzioni cercano sempre le strade più facili, il mondo dell’associazionismo, delle cooperative e del volontariato deve muoversi e lottare per tornare a fare ciò che facevano pre-covid», afferma la guida del CNVG.

Tante sono le necessità di chi vive ristretto nella libertà a cui sopperisce il mondo del volontariato. «Escludere per tutti questi mesi i volontari e l’associazionismo dal carcere è stato come togliere un organo ad un corpo» sostiene Chiaretti. Sesta Opera all’ingranaggio-carcere in Lombardia “presta” centinaia di volontari. «Sono 55 nel solo carcere milanese di San Vittore, uno dei pochissimi che ha lasciato aperte le porte al volontariato anche durante la “fase 1”». Anche se ad oggi sono solo due le persone che possono entrare: «Per distribuire gli abiti ai detenuti, e anche tutti quegli altri beni necessari che altrimenti gli istituti di pena non riescono a recuperare, come ad esempio il dentifricio o la pasta per le dentiere». E ancora, a Bollate, carcere da oltre 1200 detenuti, «al cibo per chi faceva il ramadan che gli istituti non riuscivano a recuperare, ci hanno pensato i volontari». Questa è la condizione delle principali carceri lombarde, la regione più ferita dal virus e dove anche ad Opera, la casa di reclusione più grande delle 225 italiane, «è tutto fermo, lì nessun volontario può entrare». Questo scenario si somma a quello pregresso: il sovraffollamento delle carceri e i collegamenti tecnologici difficili e impossibili in alcuni penitenziari, non sempre per volontà delle istituzioni o degli operatori.

Se il volontariato fa un passo avanti, c’è chi ne fa due indietro
Mentre perfino l’Iran ha varato misure alternative al carcere, da noi le direttive parlano sin dall’inizio della pandemia, in caso di contagio, di porre i detenuti in celle singole per l’isolamento sanitario. Difficile, tuttavia, comprendere in che modo ciò possa essere organizzato, tenendo conto che secondo gli ultimi dati, in Italia abbiamo circa 53.139 detenuti per un totale di 47.231 posti effettivi. E non ci sono celle vuote, semmai ce ne sono di inagibili. Il sovraffollamento rimane ma è diminuito drasticamente da fine febbraio, quando i detenuti in carcere erano 61.230. È stato un risultato combinato: a una diminuzione degli ingressi, dovuta al minor numero di reati commessi durante il lockdown, si è aggiunto un maggiore ricorso alle misure alternative al carcere nelle sentenze emesse dai giudici negli ultimi due mesi.

In Lombardia il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), il Tribunale di sorveglianza, il mondo del volontariato e la curia stavano studiando con la Regione un piano per accompagnare e facilitare le uscite dei detenuti dalle carceri regionali e l’accompagnamento sul territorio in modo controllato. «Tutto è però saltato perché la Regione ha rifiutato 900 mila euro della Cassa delle ammende che può finanziare programmi di reinserimento per i detenuti», spiega Guido Chiaretti. E non è finita qui: a frenare in parte alcune scarcerazioni previste c’è la carenza di braccialetti elettronici.

Carcere: idee e pratiche nuove per la fase 2 e non solo…
A preoccupare chi si occupa del sistema carcerario italiano è principalmente cosa succederà una volta contenuta la diffusione del coronavirus: i protocolli sanitari precedenti all’epidemia si sono rivelati inadeguati, soprattutto al momento di applicarli, così come le strutture a disposizione. «Per usare una metafora, il carcere era una nave che imbarcava acqua quando il mare era calmo: con il coronavirus è arrivata la tempesta, e ha iniziato ad affondare», dice Chiaretti.

Se il Governo ha fatto la “scelta di comodo” di affidare alla discrezionalità dei direttori delle carceri la riapertura alle visite dei parenti, Favero non accetta la messa al bando del volontariato a tempo indeterminato. La presidente del CNVG porterà avanti in queste settimane, regione per regione, colloqui con i garanti territoriali e con le istituzioni locali per ripristinare l’accesso dei volontari, per regolamentare le visite in presenza dei familiari dei detenuti.

In moltissimi casi, però, non ci sono le condizioni strutturali per predisporre sale di attesa sufficientemente capienti, e percorsi protetti che separino gli ospiti dai detenuti, ma anche gli ospiti tra loro. «C’è però la volontà sostenuta del mondo del volontariato, di trovare idee e soluzioni nuove a cui seguono richieste imprescindibili». Una è quella di mantenere le tecnologie per preservare il legame con gli affetti dei detenuti: «Ci sono persone che sono rinate perché hanno rivisto in videochiamata i luoghi di casa dopo 10 o 15 anni. Qualcuno non vedeva la madre da anni e ha avuto la possibilità di ritrovarla». Non solo, questi strumenti andrebbero addirittura allargati. «Tutto questo lo abbiamo detto anche al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma che abbiamo incontrato il 12 maggio ma che non ha saputo e potuto rassicurarci sul fatto che le nostre richieste sulle visite e sul reingresso dei volontari vengano accolte».

Il mondo del volontariato non è immobile, lavora anche da fuori
Se le tecnologie, entrate finalmente in carcere anche per far fronte alla rabbia dei detenuti, non devono uscire quando – e se – si tornerà alla normalità, Favero è preoccupata che il ripensamento dei modelli organizzativi delle carceri avvenga escludendo le decine di associazioni educative e di volontariato che operano, o meglio operavano, quotidianamente negli istituti italiani. Oltre alle visite, «di fatto quasi sospese in presenza fino a fine giugno», dalle lunghe e monotone giornate dei detenuti, sono scomparse negli ultimi due mesi anche le attività educative e istruttive, dalle lezioni di lingua a quelle di teatro alle altre iniziative di cui si fanno carico i volontari. «Se in certe occasioni sono state ripristinate in videoconferenza, come a Rebibbia dove il teatro con i detenuti lo stanno facendo online, o come a Bergamo, dove sono le attività redazionali interne al carcere che sono andate in rete e vanno avanti lì, in molti casi non è stato possibile».

Riaprire al volontariato in carcere significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena, quell’articolo 27 che i detenuti del laboratorio di falegnameria del carcere di Busto Arsizio in Lombardia hanno continuato da soli, producendo dei crocifissi in legno con incastonato un cuore a metà, «perché l’altra metà si trova fuori», racconta il cappellano Don David Maria Riboldi.

Inoltre vanno riprese le attività con i ragazzi delle scuole «progetti come “A scuola di libertà”, tesi a fare prevenzione tra le giovani generazioni ma anche a spiegare loro che non si crea sicurezza facendo “marcire in galera” chi commette reati, ma accompagnandolo in un percorso di assunzione di responsabilità», conclude Favero.


Foto: Giovanni Gussoni/Sintesi


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