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Rasconi (Uildm): «Bosso ci ha insegnato che non è una malattia che ci può dire chi siamo»

Ezio Bosso ci ha lasciati la scorsa notte. È morto a 48 anni e dal 2011 conviveva con una malattia neurodegenerativa. «È stato, anzi è, una persona che nonostante la patologia non ha rinunciato alla sua passione», dice Marco Rasconi, presidente dell'Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. «Lui ci lascia un messaggio chiaro: la malattia può cambiare il corpo, le abitudini, il modo di fare le cose, ma non l’essenza delle persone che siamo»

di Anna Spena

Ezio Bosso ci ha lasciati la scorsa notte. È morto a 48 anni e dal 2011 conviveva con una malattia neurodegenerativa. “Un grande musicista non è chi suona più forte ma chi ascolta di più l’altro” aveva detto lo scorso 2018 in un discorso al parlamento europeo e “i problemi”, ha aggiunto, “diventano opportunità”. Questo pianista e direttore d’orchestra immenso ha saputo andare oltre la malattia. «È stato, anzi è, una persona che nonostante la patologia non ha rinunciato alla sua passione», dice Marco Rasconi, presidente di Uildm, Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare.

«Aggiungo», continua, «che la sua passione era il suo essere. Quando una persona si ammala la cosa più difficile è trovare il suo centro. E sono state proprio l’arte, la musica, che l’hanno tenuto radicato nella sua vita. Ezio Bosso ha continuato a fare quello che amava nonostante la patologia». "La disabilità sta negli occhi di chi guarda", diceva Bosso. E quella che ci lascia è un’eredità fortissima e potente da non perdere. «Non con il suo esempio, ma proprio con la sua vita», dice Rasconi, «manda un messaggio chiaro, quello di non rinunciare mai a chi siamo nonostante la malattia. Perché la malattia può cambiare il corpo, le abitudini, il modo di fare le cose, ma non l’essenza delle persone che siamo».

Ed è su questo punto che bisogna riportare il centro della discussione: «Il desiderio di vivere. Il messaggio di Bosso è attualissimo e vale per tutte le malattie. Dai malati di tumore fino ad arrivare alla pandemia che ci colpisce oggi: non lasciamo che il Coronavirus cambi il nostro modo di essere, non lasciamo che le difficoltà che incontriamo nella vita ci trasformino in persone più vuote e negative».

Ricordare l’uomo e non la malattia. «Quando diciamo Stephen Hawking pensiamo prima di tutto ad un grandioso fisico, poi alla persona e poi alla sclerosi amiotrofica che l’ha colpito. Ecco Bosso ci ha lasciato questo messaggio qui: l’uomo viene prima della malattia. Non è la malattia ma quello che è stato in grado di fare attraverso la sua passione. Questo è un messaggio fondamentale non solo per le persone disabili o per le persone malate in generale. L’uomo non è “ciò che gli accade”. La malattia è un “accadimento”. Bosso poi è stato bravissimo a trasformare quell’accadimento a renderlo un amplificatore dell’uomo che è. Non si è arreso e ha trasformato la malattia quasi in uno strumento per fare ancora di più quello che amava, essere ancora di più quello che era».

Ma quello in cui è riuscito Ezio Bosso non è una cosa facile: «Certo che non lo è», continua Rasconi. «Ci sono persone che rimangono “stese” si chiudono nella negatività, ed altre per cui invece l’accadimento negativo si trasforma in motore. Dipende dal carattere, dalla tempistica, dal contesto. Ci possono volere due ore, due mesi o 20 anni. Non è mai un percorso facile. Allora è qui che entra in gioco il mondo associativo che deve dare gli strumenti per combattere la malattia: dal supporto piscologico, al confronto con gli altri fino ai supporti tecnologici che aiutano le persone. Dobbiamo dare alle persone “più armi” per vivere e trasformare la malattia. Così come ha fatto Bosso con la sua musica».

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