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Cooperazione & Relazioni internazionali

Statue, di quale tolleranza stiamo parlando?

Una furia iconoclasta cominciata negli Stati Uniti ha contagiato molti Paesi del mondo. E il coro di voci sdegnate che si è levato in questi giorni dopo gli atti di rivolta sono sorprendenti e deludenti per la miopia e la mancanza di civiltà dimostrata proprio da chi pretenderebbe difendere le ragioni della “cultura". Quando cadono i regimi, per fortuna nostra, ci si libera anche dei loro simboli, come è accaduto dopo il fascismo o in seguito al crollo dell’Unione Sovietica

di Anna Detheridge

Il coro di voci sdegnate che si è levato in questi giorni dopo gli atti di rivolta e di iconoclastìa in seguito all’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, sono a mio parere sorprendenti e deludenti per la miopia e la mancanza di civiltà dimostrata proprio da chi pretenderebbe difendere le ragioni della “cultura”.

Ma cominciamo dai fatti. Una furia iconoclasta cominciata negli Stati Uniti ha contagiato molti Paesi del mondo, compresi la Gran Bretagna e l’Italia. A St. Paul nel Minnesota la statua in bronzo di Cristoforo Colombo donato dagli italiani d’America allo Stato è stato divelto dal suo piedestallo e trascinato a terra. Un uomo pone il ginocchio sulla testa del bronzo e mima il gesto di soffocamento del poliziotto. A Boston la statua di Colombo, questa volta in pietra, se l’è cavata con la decapitazione. In Inghilterra altre figure entrate nel visuale della protesta sono un tal Edward Colston, mercante di schiavi, la cui effigie è stata gettata nelle acque del porto di Bristol, e la statua di Robert Baden Powell, fondatore dei boy scouts strenuamente difesa da un gruppo di pensionati sul molo di Poole, questa volta con successo. Lo hanno difeso dagli stessi impiegati comunali che volevano rimuoverlo temendo che potesse fare la stessa fine ingloriosa di Colston. L’Italia per ora se l’è cavata con la statua imbrattata di rosso di Indro Montanelli a Milano. Ognuno delle personalità rappresentate è oggetto di accuse spesso imprecise di ignomie varie che hanno a che fare genericamente con il razzismo. Certamente gli atti di violenza anche contro dei simulacri sono esecrabili e da condannare. Ma in tutte queste situazioni c’è un comun denominatore: le statue nello spazio pubblico rappresentano un ordine simbolico, una gerarchia di valori presumibilmente condivisa dalla comunità, valori resi visibili e comprensibili attraverso figure elevate su un piedestallo, selezionati per essere un esempio di virtù civica. Una statua in bronzo o in marmo ha qualcosa di immortale, si erge a rappresentare una verità eterna, scolpita per l’appunto “nella pietra”.

Ma nel momento in cui esplode la rabbia sociale di una parte della società che non trova ascolto, che si ritiene discriminata, è prevedibile che si scagli contro i simboli di un ordine costituito che la esclude. Non si rispecchia in quelle raffigurazioni di “eroi” che forse qualche pecca ce l’hanno, e che comunque non le appartengono. E quando nonostante la furia non riesce a divellere l’effigie non è un caso che gli si imbrattano gli occhi o gli si taglia le orecchie.

Chi accusa di intolleranza coloro che si ribellano ad atti feroci di repressione vive nella cecità totale, in un mondo alla rovescia, talmente ovattato da non accorgersi dell’enorme ipocrisia delle nostre democrazie occidentali dove alcuni continuano ad essere nei secoli più uguali degli altri. I filmati di privati cittadini pubblicati dai media hanno rivelato reati odiosi e ripetuti da parte delle forze dell’ordine statunitensi nei confronti dei propri concittadini. Con il coronavirus si sono evidenziate in tutte le nostre società occidentali, profonde ineguaglianze tra gli stessi cittadini. Lo slogan “Black Lives Matter” all’insegna del quale si sono scatenate le proteste diventa un refrain che unisce tutte quelle minoranze che sentono a torto o a ragione di essere discriminate. E a nulla serviranno le grida manzoniane di quasi la totalità dei commentatori nei confronti di chi è vittima di palese ingiustizia e di ben altri atti di intolleranza nella vita reale fino a perdere la vita per puro pregiudizio razziale.

Forse qualche cenno sulla verità storica a proposito della caduta delle civiltà varrebbe la pena farla. Già ai tempi degli Assiri l’avvicendamento delle dinastie si risolveva con la distruzione delle icone del potere che soccombe. Pochissimi dei grandi capolavori in bronzo della Antica Grecia sono arrivati a noi, non per le ribellioni dei loro popoli, ma perché in altri momenti storici sono stati fusi per realizzare armi, per combattere altre guerre, per le ragioni più diverse. I monumenti di Palmyra sono stati distrutti dall’ISIS per un atto di propaganda malvagia, mentre le molte meraviglie di Paesi quali la Siria e lo Yemen sono andate tragicamente perdute (senza che le intellighenzie dell’Occidente battessero un colpo sulle loro tastiere). Le guerre diffuse sono una sorta di fallout, il risultato residuale di tensioni mondiali che si decide di far esplodere lontano dall’epicentro. Quando cadono i regimi, per fortuna nostra, ci si libera anche dei loro simboli, come è accaduto dopo il fascismo o in seguito al crollo dell’Unione Sovietica.

E’ necessario celebrare in eterno sulla pubblica piazza i mercanti di schiavi? Mantenere in vista del pubblico, bianchi o neri che siano, i simboli degli stati confederati del sud degli Stati Uniti dopo l’assassinio di nove membri neri della congregazione di una Chiesa di Charlottesville nel 2015 per mano di un suprematista bianco che sventolava la bandiera confederale?

Esiste una importante differenza tra la ricerca e la difesa della verità storica, che è dovere degli storici e di tutti noi preservare sempre, e ciò che è opportuno mostrare sulla pubblica piazza. Non tutto potrà durare in eterno, i valori cambiano con i tempi. All’epoca di mio padre in Inghilterra l’omosessualità era un reato punibile con la reclusione. Non solo, ma oggi la composizione della società non rispecchia più quella dello Stato Nazione dell’Ottocento che rappresenta la cultura amministrativa di appartenenza che anima molti dei nostri conservatori più nostalgici.

Soprattutto nei Paesi del Nuovo Mondo, ma anche nel nostro, ritroviamo le tracce di culture rimosse, spesso locali, lontane nel tempo, ma di grande suggestione, che condividono con noi i nostri stessi luoghi. Dagli indiani d’America, agli aborigeni dell’Australia, agli etruschi, tutti i popoli indigeni, (gli abitanti cosiddetti First Nation) hanno molto ad insegnarci per quanto riguarda la sensibilità per il mondo animale, la biodiversità, la Natura. Una maggiore attenzione per le culture minoritarie che vivono al nostro fianco potrebbe insegnarci qualche elemento in più di civiltà e senza dubbio una diversa sensibilità per il fragile equilibrio del mondo naturale al quale apparteniamo tutti.

Non tutte le opere che decorano le pubbliche piazze sono capolavori. Forse bisognerebbe avere migliore cura dei veri capolavori della Storia, molti dei quali sono finiti nel dimenticatoio, fuori dalla percezione di tutti noi, proprio come le civiltà minoritarie del passato. Capolavori assoluti come, ad esempio, la Colonna Traiana, il cui fregio a spirale narra scolpito nel marmo con mano sublime, le guerre di Dacia, raccontando vita e morte, vittorie e sconfitte, celebrando molto di più del trionfo dell’esercito romano. Tanto che in epoca medioevale fu conservata e dichiarata proprietà pubblica. La sopravvivenza dei monumenti potrà dipendere anche dalla loro intrinseca qualità che emoziona, ma l’unica vera speranza di sopravvivenza di un monumento o di un luogo sacro sta nella consapevolezza – al di là delle diverse religioni e provenienze – che fa parte di una narrazione che accomuna, che non esclude, affidata alla volontà di condivisione e di scambi con altre culture diverse, ma alla pari della nostra.

Photo © Photoshot/Sintesi. I manifestanti trascinano una statua presa dal monumento confederato al Campidoglio di Stato lungo Salisbury Street a Raleigh, Carolina del Nord, Stati Uniti, il 19 giugno 2020, Stati Uniti.


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