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La riscossa di Gesù lavoratore

Sul prossimo numero della Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro ricostruisce la vicenda di una statua che per tanti decenni è stata tenuta un po’ nell’ombra: rappresenta Gesù con arnesi da falegname tra le mani. Venne commissionata dalle Acli negli anni 50. Ispirò anche Fellini nella Dolce Vita. E ora papa Francesco l’ha riportata in auge

di Giuseppe Frangi

Chi ha seguito nei mesi del lockdown l’appuntamento mattutino con la messa di papa Francesco dalla cappella di Santa Marta, ha potuto notare come nei giorni attorno al 1° maggio, alle spalle dell’altare sia comparsa una statua di bronzo con un’immagine che si poteva pensare fosse di san Giuseppe artigiano che la chiesa festeggia quel giorno.

In realtà quella è una statua di “Gesù lavoratore” ed ha una storia “sociale” straordinaria, che è stata ricostruita da Antonio Spadaro sul numero in uscita della Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti di cui Spadaro è direttore.

Una storia che risale al 1955 quando Pio XII aveva istituito la festa liturgica di San Giuseppe artigiano, assegnando ad essa il giorno 1° maggio. In realtà le Acli avevano avanzato la richiesta che la festa fosse di “Gesù lavoratore”. Per questo l’anno successivo, radunandosi in decine di migliaia in piazza Duomo a Milano per la festa del 1° maggio, avevano portato una statua realizzata Enrico Nell Breuning del «Gesù divino lavoratore» in bronzo dorato. Era appena stato nominato arcivescovo di Milano Giambattista Montini, tra i più convinti promotori della nascita delle Acli. E proprio Montini quel 1° maggio benedì la statua del «Gesù divino lavoratore» in bronzo dorato. Del resto la sua sensibilità rispetto al tema era ben nota: il 9 gennaio 1955, parlando agli operai di Sesto San Giovanni, l’Arcivescovo aveva ricordato una definizione che gli era stata data da mons. Dell’Acqua nei suoi auguri per la sua elevazione all’episcopato: «Si è detto che io sarei stato l’arcivescovo dei lavoratori. Ebbene, qui oggi voglio sciogliere il mio riserbo dichiarando che, con la grazia di Dio, farò tutto il possibile per cercare di essere l’arcivescovo dei lavoratori».

Le Acli avevano pensato di mandare la statua a Roma, in occasione dell’incontro del Papa con lavoratori cattolici. Così il “Gesù lavoratore” volò fino a Ciampino e poi da Ciampino in elicottero arrivò fino a Piazza San Pietro, con un trasferimento diventato leggendario perché riproposto da Federico Fellini nella Dolce Vita.

Ma una volta arrivato a Roma la statua tornò ad essere di “San Giuseppe artigiano”. Infatti nel 1951 il Sant’Uffizio aveva stabilito che Gesù lavoratore non fosse mai rappresentato da solo, ma inquadrato nel suo contesto familiare con Maria e Giuseppe, «mirabili esempi di lavoro».

Papa Pacelli, preso un po’ di sprovvista, prima ricordò questa limitazione. Poi fece una concessione alla delegazione aclista che aveva “scortato” la statua nella trasferta romana. «Si, ecco, Divino Lavoratore può essere accettato», disse.

La statua, che è abitualmente collocata nell’atrio della sede delle Acli, di tanto in tanto ha fatto altre apparizioni pubbliche. La più recente è stata quella a Santa Marta. E deve essere stata quell’apparizione ad aver suggerito a papa Francesco di dare proprio il nome di “Gesù divino lavoratore” al Fondo diocesano istituito il 12 giugno scorso «per coloro che rischiano di rimanere esclusi dalle tutele istituzionali e che hanno bisogno di un sostegno che li accompagni, finché potranno camminare di nuovo autonomamente». Del resto, come sottolinea padre Spadaro nell’articolo di Civiltà Cattolica, «Gesù lavoratore è immagine che indica l’immersione di Dio nelle vicende umane, una incarnazione che accompagna l’azione dell’uomo e della donna che costruiscono il mondo».


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