Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Education & Scuola

I falsi pesi nell’epoca del Covid

Sono circolate molte analisi interessanti aventi come punto comune l’idea di utilizzare la crisi come opportunità per ripensare da fondo il nostro modello di sviluppo: superato il punto di catastrofe c’è la possibilità di uscirne in modo disruptive, cambiando radicalmente appunto le gerarchie, i pesi e le misure fin qui adottati. L’impressione è che alle molte proposte non siano poi corrisposte iniziative adeguate

di Giuseppe Avallone

Anselm Eibenschütz, sottoufficiale ebreo costretto suo malgrado a lasciare l’esercito per volontà della moglie, è inviato a fare il verificatore di pesi e di misure nel distretto di Zlotogrod in Galizia, estrema periferia dell’impero austro-ungarico, ormai vicino alla sua decadenza. La sua storia è raccontata da Joseph Roth nel romanzo “Il peso falso” (1937, in italiano Adelphi 1975): una delle ultime opere di Roth, amaro apologo sulla giustizia e sulla disgregazione dei valori ideali e morali. Uomo probo ed onesto Eibenschütz, cerca di ristabilire le regole tra commercianti e bottegai che falsificavano i pesi per frodare i clienti e lo Stato, pratica ampiamente tollerata dal precedente verificatore, considerato che si trattava per lo più di gente molto povera. Ma il tradimento della moglie e lo scontro con un trafficante di disertori, lo portano a perdersi prima per la passione per una donna misteriosa e poi lascandosi travolgere dall’alcool e dal desiderio di vendetta; colpito a morte dal suo nemico di sempre sogna di essere lui un negoziante, che come gli altri vende con pesi falsi e si presenta al giudizio del Grande Verificatore che tuttavia lo assolve: “i tuoi pesi sono tutti falsi, eppure tutti giusti”. Questo il finale enigmatico di Roth aperto a diverse interpretazioni.

Pensandoal periodo che stiamo vivendo ci sarebbe un grande bisogno di tornare a verificare pesi e misure. Basta andare un po' indietro nel tempo (solo qualche mese prima che la pandemia cambiasse radicalmente il discorso pubblico) per vedere come la falsità abbia avuto una straordinaria capacità di suggestione nel nostro immaginario collettivo: campagne ben orchestrate di comunicazione, facilitate dalla martellante pervasività dei social, hanno orientato e poi distorto il senso comune di una parte rilevante dei cittadini. Trasferendo i meccanismi già rodati della bulimia consumistica nella sfera della percezione della realtà si è favorita una produzione del consenso basata su poche efficaci reiterazioni di notizie false.

È stata chiamata l’imprenditoria della paura: il momento di massima espressione si è avuto sul tema dell’immigrazione e più in generale del diverso. Una larga maggioranza della popolazione italiana è stata convinta del pericolo insito in una inesistente invasione di immigrati, che sono stati additati come usurpatori del lavoro degli italiani, privilegiati nel ricevere assistenza pubblica, potenziali terroristi, tendenziali criminali, portatori di malattie; non è stato facile distinguere l’espressione consapevole di posizioni xenofobe o razziste da rancori e rabbia indistinte.

A questo ha fatto da corollario non meno significativo la diffidenza verso la scienza (ricordate i no vax) e la cultura: in generale le pratiche di cittadinanza attiva sono state considerate come pericolosa fonte di disturbo: le organizzazioni non governative alla stregua dei trafficanti, le cooperative sociali come dedite a lucrare in modo truffaldino sul welfare, i movimenti ed i centri sociali come criminali e potenziali sovvertitori dell’ordine pubblico.

Il clima creato artificialmente ha consentito il rapido prodursi di legislazione repressiva (decreti sicurezza, legittima difesa): chi è stato al governo in quella fase ha visto paradossalmente aumentare il consenso, insinuando tra i cittadini sfiducia nelle istituzioni (che pure in quel momento impersonava), ulteriore indebolimento del senso civico, rivendicazione astratta e fortunatamente velleitaria di una diversa normalità democratica.

Si sono create, come già successo in passato, due fazioni: gli indegni, più o meno consapevolmente o pigramente accodati al rumore di fondo ed in qualche modo amplificatori delle falsità sui social, e gli indignati, quotidianamente impegnati in modo autoreferenziale a denunciare il degrado ed a sottoscrivere appelli. Per molto tempo il senso comune prevalente è sembrato a favore dei primi. Negli articoli e negli appelli dei secondi appariva molto spesso la parola virus usata in senso metaforico.

Poi è arrivata la paura vera per effetto della pandemia: si è entrati in uno stato di sospensione che ha fatto pensare che il peso falso fosse stato sradicato. Si sono ristabilite alcune gerarchie di problemi; tutti protesi a salvarsi contro un nemico invisibile, sono state accantonate le diffidenze ed i rancori, si sono rivisti l’attenzione ai bisogni reali e le pratiche di solidarietà.

Appena allentata un po' la morsa di questa nuova e più profonda paura, qualcuno ha tentato di ripartire da dove si era rimasti, ma questa volta nonostante un notevole sforzo di accanimento teso a far riemergere il peso falso dell’odio (ora i migranti sarebbero portatori del contagio), l’impatto è stato minore.

Il gioco è cambiato, non basta più alimentare finte percezioni, ora bisogna confrontarsi con la realtà. Sono circolate, durante la fase più aggressiva dell’epidemia, molte analisi interessanti aventi come punto comune l’idea di utilizzare la crisi come opportunità per ripensare da fondo il nostro modello di sviluppo: superato il punto di catastrofe c’è, secondo alcune di queste analisi, la possibilità di uscirne in modo disruptive, cambiando radicalmente appunto le gerarchie, i pesi e le misure fin qui adottati. L’impressione è che alle molte analisi e proposte non siano poi corrisposte iniziative adeguate. Sono state messe in campo diverse risposte, quasi tutte all’insegna dell’emergenza, è mancata, ed ancora sembra mancare, una visione.

Vediamo solo alcune questioni venute con prepotenza all’ordine del giorno.

L’esigenza di sostenere e rilanciare l’economia, messa in ginocchio dalla crisi prodotta dalla pandemia, ha portato subito a fare i conti con un peso vero: l’enorme debito pubblico accumulato da nostro Paese non consentiva interventi a sostegno del sistema economico, per poter anche solo immaginare un piano di rilancio. Si è chiesta a gran voce la solidarietà europea, anche da parte di quelli che hanno sempre considerato l’Unione europea come la causa di molti dei nostri guai.

La solidarietà è arrivata, anche perché la crisi stava colpendo tutti i Paesi: ed all’inizio si è avuta un’accelerazione quasi insperata: sospeso il Patto di Stabilità, nuove risorse per il fondo Mes con nuove regole, interventi della Bei, revisione del bilancio secondo una strategia mirata; ma soprattutto ipotesi di ricorso per la prima volta ad una linea di debito comune; alla fine, come noto, dopo lunga discussione ed immancabili distinguo tra i livelli di governo dell’Unione (Consiglio Europeo, Parlamento e Commissione) si è approvato il fondo Next Generation EU, pari a 750 miliardi di euro, con il 28% (209 miliardi di euro) riservato all’Italia.

L’analisi delle caratteristiche e delle possibili ricadute del nuovo fondo europeo è molto complessa e va ben oltre i limiti di questa nota, che vuole solo provare a mettere in evidenza quanto si è prodotto nel dibattito pubblico italiano: da un lato qualche eccesso di entusiasmo per il risultato ottenuto, nascondendo il fatto che sempre di debito si tratta anche se condiviso e nel lungo periodo; dall’altro polemiche sulle condizionalità (è una trappola, ha detto qualcuno) e sul fatto che l’Italia resta un contributore netto dell’Unione europea.

C’è una lunga tradizione della politica (specie al sud) di rivendicare la quantità delle risorse assegnate al proprio territorio come risultato positivo, tralasciando il fatto che se le risorse sono maggiori vuol dire che maggiore è l’arretratezza economica e quindi non c’è da farsene un gran vanto. Una caratteristica antropologica della politica democristiana come evidenziò il folgorante saggio di Gabriella Gribaudi (intitolato appunto “Mediatori”, pubblicato nel 1980 da Rosemberg&Sellier e che per me rimane una delle analisi più lucide sulla politica per il Mezzogiorno) che sembra riproporsi in forme completamente diverse ma con straordinarie analogie sul modo di gestire il potere ed il consenso.

Scontri sui pesi e sulle misure, con qualche peso falso buttato qua e là e misure approssimative: ci si attendeva un grande dibattito pubblico sulla ripresa del ruolo dello Stato in economia, sulla programmazione della spesa pubblica che rivedesse le priorità (sanità, istruzione, ricerca ed innovazione) come peraltro indicato dalla strategia europea, come unica vera condizionalità; si sperava in una discussione senza ipocrisie sull’assetto istituzionale: non una riforma improvvisata e demagogica per tagliare il numero dei parlamentari, ma una seria ridefinizione dei diversi livelli istituzionali e delle relative autonomie, lette in modo funzionale alla gestione dei servizi e non come contrapposizione ideologica tra livelli di governo destinati ad essere parimenti inefficienti senza una chiara attribuzione di ruoli e competenze; si poteva perfino sperare che la gravità della crisi portasse ad ammettere l’insostenibilità del debito pubblico ( anche mutualizzato a livello europeo) a fronte di una crescita del patrimonio privato delle famiglie italiane, un macigno sulla testa delle future generazioni.

Un grande occasione per un dibattito pubblico aperto a tutti, con tanti contributi, da task force, da pensatoi di varia natura, da intellettuali organici e disorganici, ma soprattutto da una forte e diffusa domanda sociale disposta a collaborare, a superare conflitti aprioristici, ad offrire qualità e consapevolezza.

Invece ancora qualche toppa per far fronte alle emergenze e poi un grande classico: se ne parla a settembre.

Siamo stati completamente assorbiti dalle misure per garantire il distanziamento sociale e assistiamo inerti all’aumento delle distanze sociali: la crescita vertiginosa delle disuguaglianze sociali, già in atto e sotto la lente di osservazione degli analisti economici internazionali come contraddizione grave in grado di limitare le stesse possibilità di sviluppo economico, è stata ulteriormente sostenuta dalla diffusione della pandemia. I dati sono sotto gli occhi di tutti: oltre che diseguaglianze prettamente economiche e reddituali aumentano le disuguaglianze di genere, di territorio, culturali; i provvedimenti tampone per alleviare il disagio economico, necessari in questa fase non potranno durare a lungo. Occorrono misure strutturali, ma le proposte che sono state avanzate (si pensi a quelle del Forum disuguaglianze e diversità o dell’Asvis, solo per citarne qualcuna) non assumono il giusto peso nell’agenda politica e nel dibattito pubblico.

Completamente appannato (e non solo in Italia) è poi il dibattito sulla questione ambientale: l’emergenza rischia di cancellare i timidi progressi europei sul green new deal. Riportare al centro le questioni ambientali è un fatto di sopravvivenza; non basta più citare l’ambiente in modo rituale in ogni discorso programmatico. Si intende utilizzare le risorse del recovery fund per le priorità indicate dalla strategia europea con interventi urgenti e concreti, di tipo normativo e di carattere operativo, adattati al contesto italiano? Anche in questo caso siamo ad indicazioni molto generiche ed ai rinvii.

Sul tema del lavoro e dell’occupazione bisogna prendere atto che pensare ad un rilancio di tipo tradizionale con le opere pubbliche e la ripresa della produzione industriale, sostenute dalla spesa pubblica, può risultare insufficiente. La crisi prodotta dalla pandemia non ha una dimensione solo quantitativa, riconducibile ad un ciclo sfavorevole: è la qualità del lavoro che va profondamente ripensata, a partire dai diritti e dalle opportunità di accesso, fino ai tempi ed alle modalità. Passata la sbornia dello smart working, soluzione improvvisata e priva di un progetto di ridefinizione del lavoro, sarebbe il caso di prendere un po' più seriamente le ipotesi di forme di reddito di base in grado di offrire tempo e spazio per far sedimentare quelle forme di lavoro basate su creatività ed innovazione che in germe sono presenti nelle start up ed in alcuni ambiti di lavoro artistico, sociale e culturale. Il tema è delicato perché la riconversione del sistema produttivo richiede gradualità e tempi lunghi; occorre coraggio per consentire l’emersione di nuove forme di lavoro magari recuperando spazialmente territori che si sono desertificati (le aree interne del sud) e temporalmente patti intergenerazionali per consentire il passaggio da chi ha beneficiato di lavoro garantito (e di annesso sistema previdenziale) a chi intraprende strade nuove ed ha bisogno di fiducia e di sostegno. Ovviamente garantendo adeguate forme di tutele dei diritti. Un altro peso da spostare nella discussione pubblica con cautela ma con determinazione.

Una radicale revisione di priorità è urgente sul tema della scuola e della formazione, vero banco di prova per tenere in vita una cittadinanza attiva e partecipativa e per arrestare l’impoverimento della discussione pubblica (che è il fondamento della democrazia secondo Amartya Sen). Speriamo di liberarci presto di dibattiti inutili quali quello sulla didattica a distanza, proposta senza nessuna cautela pedagogica e fortemente classista in un paese di disuguaglianze sociali ancora forte (oltre che maldestra per l’assoluta casualità nella diffusione di adeguate tecnologie di supporto); come pure di quello surreale sul distanziamento sociale nelle classi, come se tutto dipendesse dalla forma dei banchi e non dallo stato comatoso delle strutture scolastiche in gran parte del Paese. Ben altri pesi e misure bisogna mettere in campo e tutte sulla qualità e sulla funzione della scuola e della formazione. Un Paese capace di futuro non può tollerare livelli di povertà educativa per tanta parte dei minori (non solo del sud), tassi di dispersione scolastica (più o meno ufficiali) ancora importanti, la tendenziale fuga dall’istruzione superiore, la delegittimazione costante della funzione docente ripagata con piccoli meccanismi di tutela corporativa. Non è una discussione settoriale da demandare ad un Ministero, ma un tema centrale di democrazia e tutti se ne dovrebbero occupare.

Sono solo alcuni esempi per dire quanto sia urgente liberarsi dei pesi falsi e riportare il giusto equilibrio nelle priorità della politica e della partecipazione dei cittadini. Sembra tornare di attualità il saggio di Max Weber La politica come professione del luglio 1919: Weber parlava di etica dei principi e di etica della responsabilità. Piuttosto che un dovuto equilibrio tra le due oggi sembrano difettare entrambe. Abbiamo un esempio straordinario cui riferirci per garantire questo equilibrio: la nostra Costituzione, attuarla fino in fondo è oggi più che mai necessario. Il grande Verificatore che ci attende è la tenuta della nostra democrazia.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA