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Gratuità: un’esperienza generativa di senso che ci rende liberi

Gratuità non significa assenza di retribuzione. Gratuità è ben altro: «è il motore che ci spinge a fare, e a far bene una cosa, che in teoria potremmo anche non fare». Gratuità, ha spiegato il professor Vittorio Pelligra nel dibattito che Vita ha organizzato con il CSV di Padova, è «un'eccedenza, un'eccedenza che di rende liberi»

di Redazione

Ogni lavoro può essere o può diventare generatore di senso. Anche il lavoro più umile. Ma c'è una dimensione del fare che, oggi più che mai, può rivelarsi portatrice di senso: è l'esperienza del volontariato. Un volontariato – ha spiegato Niccolò Gennaro, direttore del Centro Servizi Volontariato di Padova, nel terzo degli approfondimenti mensili che Vita organizza proprio con il CSV nell'ambito di Padova Capitale Europea del Volontariato – che non va certo inteso come una forma residuale. Anzi.

Il volontariato è qualcosa che si pone prima, dentro, non dopo i processi: organizzativi e di lavoro. In questo senso, ha aggiunto Vittorio Pelligra. professore di Economia dell'Informazione all'Università di Cagliari, da un lato devono «preoccuparci i dati internazionali che rivelano che circa il 20% dei lavoratoriritiene che il loro lavoro abbia poco senso o sia addirittura dannoso socialmente».

Dall'altro, però, proprio questi dati rivelano come «il senso sia un motore di innovazione, di coesione e persino di efficienza organizzativa». A patto, ha spiegato Pelligra, di capire che quando parliamo di volontariato e di gratuità parliamo di qualcosa di veramente profondo, non di una mera assenza di retribuzione. «Gratuità è qualcosa che faccio e dà senso a ciò che faccio. Qualcosa che potrei, a rigor di logica, anche non fare: è un'eccedenza che genera fiducia, che costruisce legami e irrora di senso l'ambiente in cui viviamo».

Ecco perché il volontariato può porsi come motore d'impresa e la gratuità che ne è il fondamento può aprire a nuovi modelli organizzativi che non considerino più il lavoro come un mero costo e si incardino sulla fiducia, anziché sul controllo del lavoratore.

Una lezione grande che, ha ribadito il nostro Riccardo Bonacina, ci riporta a quanto scriveva Charles Péguy ai primi del Novecento: la cura per la cosa ben fatta è cura degli altri e di sé.

Gli operai, un tempo, lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo delle generazioni, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali

Charles Péguy, L’argent (1924)

Oggi più che mai la sfida si presenta quindi sui modelli, ha concluso Edoardo Caprino. Modelli di organizzazione, di lavoro, ma anche di comunicazione.

In un periodo particolarmente critico, dove le parole del Terzo Settore sono appetibili per chi voglia praticare "green washing", il nostro modo deve essere non solo fiero di quelle parole, ma ribadire che quelle parole sono pietre. Pietre su cui edificare e da cui ripartire per generare quel senso che, nel lavoro, nell'impresa, nella comunità, nel servizio ci rende liberi.


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