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Algoritmi e telemedicina: vizi e virtù dell’uomo-macchina secondo Benasayag

Nei suoi lavori Miguel Benasayag ci invita a riflettere su un tempo in cui siamo chiamati a fare in modo non vengano meno le partico­larità del vivente, il suo essere imprevedibile e libero, irriducibile a una somma di informazioni e Big Data

di Carmine Castoro

La medicina che continua a insistere su output di apparecchiature sofisticatissime, radiografie, molecole, protocolli e immagini 3D, dimenticando biografie, storie personali, genealogie allargate.

Le relazioni interpersonali che si espongono alla profilazione di Big Data dove è tutto un accumulo di gusti, abitudini strumentali, scelte ritornanti, tracce numeriche, percorsi fissi, per creare insiemi umani, cluster pubblicitari, tsunami di profitti per chi gestisce i social più alla moda. Il mercato del lavoro che seleziona severamente e asetticamente specifici skill, gettando nell’”inabilità” o nell’”inefficienza” capacità critiche e intellettive ben più costruttive come l’integrità completa della persona che insegue la sua dignità.

Nonostante la complessità e la febbre dei tempi che viviamo, il potere preferisce ancora manichini, corpi amministrabili, facoltà gestibili, anime a pezzi, bypassando ogni olismo, ogni orizzonte di ampio respiro, recludendo nelle gattabuie teoriche gli approcci storici e trasformativi, cristallizzando la replicabile “perfezione” dell’uomo-macchina.

Avanza, insomma, un uomo inteso come stampo di condotte da inculcare, forziere di inclinazioni da instradare, fascio di attenzioni da avvampare, un uomo senza qualità in una versione rinnovata alla Musil, “superficie vuota che deve fare continuamente tabula rasa della sua singolarità per diventare un “processore di informazioni”, ovvero una quantità di energia amorfa, che può e deve conformarsi agli esoscheletri disposti dalla macroeconomia”, come ha sempre ribadito nelle sue ultime opere pubblicate in Italia il filosofo e psicanalista argentino Miguel Benasayag, da Oltre le passioni tristi (Feltrinelli) ai più recenti Funzionare o esistere? e La tirannia dell’algoritmo editi da Vita e Pensiero.

Siamo di fronte a un “uomo modulare”, un individuo (che oramai è sempre più dividuo, cioè divisibile nelle sue frazioni organiche ed esecutive, amputabile e sincronizzabile alla bisogna) declassato ad assemblaggio di pezzi modellizzati secondo un’ottica calcolatoria e riduzionistica, biologizzato e de-solidarizzato, che fa della “deontologizzazione”, ovvero della marginalizzazione pressoché totale degli universi di senso e delle specificità singolari, il suo “esoscheletro”, la sua armatura tutta numeri, catalogazioni, tecno-economia e digital life, cui adattarci senza troppi conflitti. Ma la deontologizzazione è anche l’incancrenirsi di un dover-essere che va nella direzione della sacralizzazione della techne che non dovrebbe mai trasformarsi in mera bulimia matematico-applicativa, in iper-considerazione del dato e in uno sfaldamento cognitivo della totalità somatopsichica di un soggetto.

L’emergenza Covid ce lo sta indicando ogni giorno il crocevia di una sfida che ci vede, soprattutto come cittadini e potenziali vittime, dimidiati fra bollettino di “guerra” con la conta tremebonda di morti e infetti, da un lato, e la tessitura di un ideale di vera salute pubblica che non dimentica la politica, la “normalità”, il benessere senza carcerazioni ed eccessi ultrarazionalistici di prevenzione, dall’altro.

Benasayag lo dice chiaramente proprio in alcune delle più belle pagine de La tirannia dell’algoritmo, conversazione a due voci con Regis Meyran, quando afferma: “Il vero problema della governamentalità algoritmica non è che un giorno la macchina possa funzionare male: il problema è piuttosto che essa determini degli orientamenti sociali invivibili, privi di faglie”.

E ancora: “Ogni agire umano, in politica come in medicina, deve tener conto che l’agire intenzionale non è che un vettore in un insieme non-calcolabile di altri vettori la cui regolazione non è prevedibile”. Che è quello che, filosoficamente ma anche epistemologicamente, è stato sempre chiamato l’Altro dentro e fuori di noi, la Vita nella sua estrinseca inquietante inflessibilità, il Pensiero nella sua eccentricità, indeterminatezza, creativa irripetibilità incarnata in ciascuno di noi, con i suoi sentimenti, il suo passato, i suoi progetti, i suoi malanni, i suoi labirinti passionali.

E allora ben venga l’impegno del Parco scientifico e tecnologico Technoscience che da alcuni anni ha avviato il progetto Net Hospital, con direttore il professor Augusto Orsini (direttore master in Flebologia e Biomeccanica 4.0 presso l’Università San Raffaele di Roma), ricomprendendo una ventina di strutture in tutta Italia.

Sorta di nosocomio virtuale, diremmo, in cui gli ospiti saranno monitorati costantemente, per il Coronavirus e non solo: un flusso di dati continuo che consentirà di poter fornire informazioni aggiornate e parametri confrontabili, fondamentali per chi fa ricerca come appunto Technoscience, finalizzato a creare reti di teleassistenza multidisciplinare per l’osservazione continua e remota dei pazienti.

Ben venga una app elaborata dalla Università di Cambridge e scaricabile sui telefonini che, dopo 4, 5 espirazioni e dei colpi di tosse verso il microfono, è già in grado di darci lo spartito della musica stonata dei nostri polmoni avvelenati dal virus, e dirci in tempo reale se sono echi da semplice influenza stagionale o da qualcosa di più pesante e rischioso.

Ben venga il nostro anatomico “spezzatino”, definiamolo così, se ci promette la guarigione con l’ausilio di sensori, super-farmaci e sonde avveniristiche, ma solo però se riusciremo a creare varchi anche a quegli elementi “intensivi”, dice Benasayag, e non solo quantitativi ed estensivi, che sono radice ragione e raccordo autentico e ineludibile fra la nostra corporeità, la natura che ci circonda e il tempo che edifichiamo assieme alle libertà vissute di tutti. Una Scienza di monitor, una Democrazia di moniti. Insieme.


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