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Non siamo in guerra: liberiamoci dalle metafore belliche

Cresce l'indice di contagio, aumentano le paure e nel discorso pubblico e tra gli scrittori tornano parole e immagini prese dal linguaggio bellico. Attenzione, osserva lo storico Aldo Schiavone, perché proprio questa "metaforizzazione" della realtà crea un abbaglio che influisce non solo sul "sentiment", ma sulla capacità di affrontare una crisi pericolosa e complessa

di Marco Dotti

È bastato poco: che l’indice di contagio risalisse, che Emmanuel Macron nel suo discorso ai francesi parlasse, esplicitamente, di coprifuoco. Poco e la metafora della guerra, che nelle sue molte varianti (trincea, barricata, fronte, linea, assedio, eroi, guerrieri, etc.) aveva già messo a dura prova il nostro lessico durante l’inverno scorso, entrasse definitivamente in un certo immaginario.

Alessandro D’Avenia, insegnante e scrittore, sempre calibrato nei suoi commenti del lunedì sul Corriere della Sera, ha però pensato di dare il proprio piccolo contributo a questa deriva di senso.

Su twitter D'Avenia annuncia il prossimo romanzo. Un romanzo dal titolo evocativo, L’appello. Ma D’Avenia si fa prendere la mano e – non pare di scorgere ironia, ancor meno autoironia nelle sue parole: comunque leggeremo il libro, che sicuramente parlerà d'altro – “infila” una serie di luoghi comuni bellici.

«Quello che vedete non è un romanzo, ma una chiamata alle armi», scrive D'Avenia. Il claim continua così: «Chi lo prende diventa parte di una guerra che non può più essere rimandata». Captatio dei lettori a parte, c’è di che riflettere. E per riflettere forse è bene andare ad altri due libri. Libri che segnalano il problema e le derive culturali che si legano a questo uso ricorsivo della metafora della guerra.

Il primo è di Luigi Manconi e Federica Graziani: Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale (Einaudi, 2020). Il rancore sociale. è la tesi degli autori, trova il proprio habitat culturale in una metaforizzazione della realtà che fa largo uso di immagini bellico-apocalittiche. Il secondo è un agile e denso libretto dello storico Aldo Schiavone: Progresso (Il mulino, 2020). L'affondo di Schiavone – sulle cui tesi complessive si potrebbe e dovrebbe discutere – sta in una postilla.

C'è un insidioso e pericoloso errore da correggere, verificatosi non su un campo di battaglia, ma in uno di quei punti d'intersezione fra il naturale e il culturale umano, che sono tuttora nevralgici per la nostra civiltà, e che, se trascurati, possono mettere persino il gioco la nostra esistenza. Ce n'è abbastanza per spaventarsi. Ma non siamo in guerra. Le paure cambiano: anch'esse sono solo storia

Aldo Schiavone

«L'abuso che si è fatto in Italia della metafora della guerra per descrivere la nostra condizione (la prima linea, il fronte, la trincea, le retrovie, il nemico, la battaglia, le armi, i caduti… e così via) è stato tra i fenomeni culturali più fuorvianti e diseducativi di questi mesi. È vero che entro certi limiti è inevitabile il ricorso al vecchio (la guerra) per spiegare il nuovo (la difficile medicalizzazione dell'epidemia). Ma oltrepassata una certa soglia, l'insistere sull'analogia aiuta solo a non capire, a impigrire mentalmente, a e a non rendersi conto della realtà da fronteggiare».

E allora, conclude Schiavone, diciamolo una volta per tutte: «non è una guerra. È un'emergenza, grave e rischiosa. Non c'è un nemico. C'è un insidioso e pericoloso errore da correggere, verificatosi non su un campo di battaglia, ma in uno di quei punti d'intersezione fra il naturale e il culturale umano, che sono tuttora nevralgici per la nostra civiltà, e che, se trascurati, possono mettere persino il gioco la nostra esistenza. Ce n'è abbastanza per spaventarsi. Ma non siamo in guerra. Le paure cambiano: anch'esse sono solo storia».


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