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Amani, la dottoressa dell’ospedale nella grotta

Amani Ballour, protagonista del documentario “The Cave”, vincitore di due Emmy Award nel 2020, era una specializzanda in pediatria quando è iniziato il conflitto in Siria. Come tanti studenti è rimasta nel suo Paese per aiutare i feriti e malati: “Molti mi chiamano per dirmi che non sapevano nulla, che solo dopo aver visto quelle riprese hanno capito. Purtroppo, però, neanche dopo questi documentari i bombardamenti sono stati fermati, né i responsabili sono stati chiamati alle loro responsabilità”

di Asmae Dachan

L’impegno umano e professionale dei medici ha contribuito a scrivere la storia della Siria anche durante la guerra. Amani Ballour, protagonista del documentario “The Cave”, vincitore di ben due Emmy Award nel 2020, era una specializzanda in pediatria quando è iniziato il conflitto in Siria. Come tutti gli studenti e i sanitari che hanno deciso di restare e lottare per salvare vite umane, ha visto orrori inenarrabili in questi anni, situazioni a cui nessun corso universitario prepara realmente. I bombardamenti deliberati di ospedali e pronto soccorso, in violazione di tutte le convenzioni internazionali sui diritti umani, hanno costretto molti sanitari ad allestire ospedali da campo in fabbriche, negozi e persino sottoterra, come accaduto nella città di Amani, al Ghouta, alle porte di Damasco, tristemente conosciuta per essere stata teatro di bombardamenti chimici e di un lungo assedio.

L’allestimento del nosocomio sotterraneo inizia nel 2012 su iniziativa del chirurgo Salim Namour.

L’intervista di persona con la dottoressa Amani, prevista durante la sua permanenza a Berlino, a causa della pandemia è stata realizzata via Skype. La trentatreenne ha uno sguardo dolce, la voce pacata e nelle sue parole c’è tutta la sofferenza di chi ha tenuto tra le braccia corpi straziati, sospesi tra la vita e la morte.

Come ha accolto la proposta del documentario sul vostro lavoro all’ospedale sotterraneo?
Quando il regista Feras Fayyad mi ha contattato, parlandomi dell’idea di documentare il lavoro nell’ospedale per la successiva realizzazione di un film, ho rifiutato, per ben tre volte. Poi ho capito l’importanza del progetto. Ero arrivata a un punto in cui sapevo che sarei morta e quindi mi sembrava utile lasciare questa sorta di eredità. Il lavoro dei giornalisti è stato lungo, due anni di riprese in condizioni davvero terribili. Quando il documentario è uscito ero già in esilio. La prima volta che l’ho visto sono rimasta stupita, mi aspettavo che le immagini si concentrassero tutte sui morti e feriti, invece al centro della narrazione c’era il mio lavoro. Firas mi ha detto che la gente fuori dalla Siria, lontana dalla guerra, non sarebbe stata pronta per quel tipo di immagini. Ciò nonostante, ogni volta che il film viene proiettato, le persone restano comunque molto impressionate. Molti mi contattano per dirmi che non sapevano nulla, che solo dopo aver visto quelle riprese hanno capito. Purtroppo, però, neanche dopo questi documentari i bombardamenti sono stati fermati, né i responsabili sono stati chiamati alle loro responsabilità. Siamo stati noi medici, paradossalmente, ad essere puniti.

Cosa è accaduto?
Sono stata costretta all’esilio, ho lasciato al Ghouta tre anni fa. I russi ci avevano dato un ultimatum, o lasciavamo la città, o ci avrebbero uccisi tutti. Eravamo circondati, l’ospedale era stato distrutto; c’erano cadaveri ovunque e non avevamo più la possibilità di operare, avevamo le mani legate. Siamo saliti sui famigerati autobus verdi con la morte nel cuore. Lasciavo la mia città ridotta a un cimitero scoperto. Siamo stati portati a Idlib, ero molto triste, io mi stavo specializzando in pediatria e in quel contesto non avevo alcuna possibilità di poter continuare gli studi. Sono stata lì tre mesi poi sono partita per la Turchia, per riprendere la specializzazione.

Com’era la sua vita di medico prima che iniziasse la guerra?
Mi stavo specializzando in pediatria a Damasco, ma l’inizio dei bombardamenti e dell’assedio ha sconvolto le nostre vite. Ho cominciato a curare i feriti di nascosto perché avevo paura di essere arrestata, come era accaduto ad altri specializzandi. Quando la situazione è precipitata ho deciso di fermarmi ad al Ghouta per prestare lì il mio servizio e non frequentare più l’università. Ho dato priorità a quelle vite che chiedevano di essere salvate, soccorrendo soprattutto bambini. Eravamo pochi medici e nessuno di noi era preparato a quelle scene. A volte in ospedale arrivavano anche cento feriti e non c’era spazio, né tempo per soccorrerli tutti. Un collega con esperienza in medicina d’urgenza ci faceva formazione ogni volta che era possibile.

Cosa ha significato per lei diventare direttrice dell’ospedale sotterraneo?
Dopo quattro anni di lavoro, sono diventata direttore dell’ospedale sotterraneo che era stato nelfrattempo costruito. È stata una sfida grande; ho avuto il sostegno di molti colleghi, ma non è mancato chi si è opposto perché sono una donna. Mi sembrava assurdo che qualcuno avesse ancora quel tipo di mentalità. Ogni giorno sul campo dimostravo di essere in grado di affrontare ogni situazione, poi c’era chi faceva ragionamenti simili. Mi dispiaceva, ma non badavo a loro. Ero consapevole che in qualche modo il mio era un lavoro pionieristico.

Al Ghouta è diventata tristemente nota per gli attacchi chimici…
Ci siamo trovati di fronte a vere tragedie e purtroppo gli attacchi sono stati diversi. Nel 2013 in una sola notte sono rimaste soffocate circa 1400 persone. Eravamo paralizzati, non avevamo ossigeno, non c’erano corpi feriti, non potevamo fare nulla perché tra l’altro eravamo sotto assedio. C’erano tanti bambini, morti soffocati nel sonno. Quando sono arrivati gli osservatori internazionali e hanno visto tutto, speravamo che la comunità internazionale avrebbe punito i colpevoli della strage, invece è stato uno shock assistere all’immobilismo. Lì abbiamo avuto la certezza che le stragi sarebbero continuate e che ci avrebbero ucciso tutti.

Grazie al documentario che ha ripreso il vostro lavoro oggi il mondo conosce quello che è accaduto in quell’ospedale e lei è diventata un punto di riferimento sulla Siria. Che cosa chiede?
Vogliamo giustizia, vogliamo che chi ha distrutto il nostro Paese paghi. Vogliamo che chi ha ucciso bambini, donne, civili, medici, compaia davanti a un tribunale e risponda dei suoi crimini. Vogliamo il rilascio dei detenuti politici che continuano a subire torture e a morire in silenzio e vogliamo notizie dei desaparecidos siriani. Sulla pelle del nostro popolo si sono accaniti in molti. Come se non bastassero i bombardamenti del governo e dei suoi alleati, i civili siriani hanno subito anche gli abusi, gli orrori, gli stupri e le violenze di formazioni terroriste come Daesh (Isis) e al Nusra, che hanno preso di mira e gambizzato la rivoluzione pacifica e di fatto sono stati funzionali al regime. Tutti i responsabili devono essere chiamati a rispondere, ma sono sincera, non abbiamo tante speranze che questo accada.

Qual è la preoccupazione maggiore riguardo alla pandemia da Covid-19?
Le situazioni critiche sono diverse. Le carceri sono sovraffollate e i detenuti non ricevono cure mediche. Anche i civili sono in pericolo perché il numero di medici rimasti in Siria non basta a coprire le esigenze della popolazione e i costi dei ricoveri e dei farmaci sono proibitivi. Dalle testimonianze che abbiamo, i contagi sono superiori alle cifre ufficiali fornite dal governo. C’è poi la tragedia di Idlib, dove milioni di persone vivono nelle tendopoli dove non è possibile praticare il distanziamento e non ci sono acqua, né disinfettanti. Il lavoro dei medici è già molto difficile, si rischia un disastro.

Il documentario “The Cave” è una produzione siriano-danese; il regista è il siriano Feras Fayyad, le produttrici sono le danesi Kirstine Barfod e Sigrid Dyekjær, i tre direttori della fotografia i siriani, Muhammed Khair Al Shami, Ammar Suleiman e Mohammed Eyad. Feras Fayyad, già regista del documentario “Last man in Aleppo”, ha subito quindici mesi di detenzione e tortura nelle carceri del regime siriano per il suo impegno come oppositore, uscendone provato e consapevole delle atroci sofferenze e umiliazioni, oltre che alle torture, inflitte soprattutto alle donne in quanto donne. Con il suo lavoro ha però voluto mettere in risalto il lavoro e il coraggio delle siriane, raccontarle come eroine, non solo come vittime.
L’edizione 2020 degli Emmy Awards si è celebrata in modo virtuale a causa della pandemia, e “The Cave” ha ottenuto il premio per la miglior fotografia per un programma di saggistica e per la miglior produzione. “La dottoressa Amani e il suo staff di donne e uomini forti ci hanno mostrato che “è speranza per il futuro”, hanno affermato Sigrid Dyekjær e Kirstine Barfod, che hanno dedicano il loro Emmy a tutti coloro che stanno ancora combattendo contro le atrocità in Siria. La pellicola ha vinto già il Grolsch People’s Choice Documentary Award alla sua prima mondiale al Toronto Film Festival ed è stato anche premiato al Cinema Eye Honors, oltre ad essere stato nominato per gli Oscar del 2020.


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