Cooperazione & Relazioni internazionali

Vienna e Kabul, così lontane, così vicine

Da Kabul a Vienna passando da Nizza, emerge un quadro incerto che pone la società civile di fronte a nuovi interrogativi. Il terrorismo liquido, capace di mutare pelle e modalità operative, di sostituire le bombe con i coltelli, di muoversi attraverso i piedi di ventenni che hanno bevuto al calice dell’odio è difficile da circostanziare e quindi, anche da prevedere e combattere

di Asmae Dachan

Che cosa accomuna Kabul a Vienna? In questo drammatico inizio di novembre entrambe le città sono state colpite dalla violenza becera del terrorismo di matrice islamista, che ha preso di mira civili inermi. Lunedì 2 novembre a Kabul i talebani hanno colpito una scuola e un’università, provocando 22 vittime nel primo attacco e 19 nel secondo. Nella notte tra il 2 e il 3 novembre la capitale austriaca è stata invece teatro di un attentato che ha preso di mira diversi punti della città, colpendo passanti in strada e provocando 4 vittime e una quindicina di feriti.

L’uccisione degli studenti afghani richiama alla mente un altro atto criminale contro il mondo della cultura e dei suoi protagonisti, ovvero l’agghiacciante decapitazione a Parigi del professor Samuel Paty. Cambiano i contesti e le motivazioni che i terroristi adducono per giustificare le loro azioni criminali, ma il risultato è sempre lo stesso: dolore, paura, rabbia e tanti, tanti interrogativi. Tra l’omicidio del professor Paty e l’attentato a Vienna non va dimenticata la strage di Nizza, costata la vita a tre civili inermi raccolti in un luogo di culto, uccisi per mano di un attentatore tunisino. La mano che impugna l’arma, in tutte queste aggressioni scellerate, è quella di giovani uomini, tutti ventenni, che accoltellano, sparano e uccidono affermando di farlo in nome di Dio, di Allah.

È ancora presto per avere notizie certe sul profilo dell’attentatore o degli attentatori di Vienna, ma sembra che questi terroristi abbiano in comune un’idea fanatica e integralista della vita, dove chiunque non la pensi come loro e rappresenti un’identità diversa diventi bersaglio del loro odio. I talebani sono terroristi con una visione oscurantista del mondo e guardano alle istituzioni educative come a una minaccia contro il loro potere, perché la cultura rende le donne e gli uomini liberi e quindi anche in grado di difendersi dall’integralismo che invece corrode lo sguardo e l’anima.

I talebani sono di religione musulmana e molti dei loro attentati sono contro obiettivi afghani, contro civili musulmani come loro, che però ai loro occhi sono kuffar, miscredenti, proprio perché non rientrano nei loro canoni sotto-culturali. Lo stesso vale per i terroristi di al Qaeda e di Daesh/Isis, anch’essi musulmani, che hanno commesso attentati in molte zone del mondo, anche in Europa, contro obiettivi occidentali e cristiani, ma anche in Paesi musulmani, a partire dalla Siria e dall’Iraq, dove hanno mosso i primi passi, fino allo Yemen e alla Libia. Come riporta Daniele Raineri su Il Foglio, sul bollettino settimanale pubblicato online dai terroristi dell’Isis, non compaiono rivendicazioni dell’attentato di Nizza e sembra che si tratti di azioni di “fanatismo diffuso”, sempre di stampo jihadista, ma non direttamente connesse a un gruppo organizzato.

Si potrebbe aprire una lunga digressione su quanto una persona che vive nella cultura dell’odio e del disprezzo della vita possa definirsi religiosa e quanto, invece, la religione per simili individui, frequentatori più di discotecheche di luoghi di culto, sia quasi un marchio di fabbrica, un abito da esibire, una bandiera sotto la quale costruirsi un’identità di comodo per giustificare i propri atti illegali di ribellione, scellerati e da un punto di vista religioso blasfemi. Ogni volta che un attentatore usa il nome di Allah per i musulmani sta bestemmiando, perché la vita è considerata un dono di Dio ed è solo Dio che può decidere quando richiamare a sé una persona. Questo va ribadito perché troppo spesso, a causa di una rumorosa narrazione fanatica, le voci dei musulmani che vivono legalmente, rispettando i principi della legge e della loro stessa fede non arrivano al grande pubblico. Le esperienze di amicizia, dialogo e solidarietà che arricchiscono il vissuto quotidiano delle città, dove vivono in pace, lavorando e studiando, anche comunità di fedeli musulmani, non fanno notizia.

Accade, quindi, che di fronte a un attentato si additi la totalità dei musulmani, o che si dica che non arriva una condanna da parte
loro. A questo proposito è utile, invece, leggere il libro “Contro l'isis. Le fatwa delle autorità religiose musulmane contro il califfato di Al Baghdadit”; – a cura di Marisa Iannucci, Giorgio Pozzi Editore, ma anche i documenti firmati dalla massima autorità islamica sunnita, l'imam al Tayyeb, insieme al Papa, dove si condanna senza equivoci e senza ombra di dubbio il terrorismo.

Tornando alla cronaca delle ultime ore, questo quadro incerto pone la società civile di fronte a nuovi interrogativi. Il terrorismo liquido, capace di mutare pelle e modalità operative, di sostituire le bombe con icoltelli, di muoversi attraverso i piedi di ventenni che hanno bevuto al calice dell’odio è difficile da circostanziare e quindi, anche da prevedere e combattere. Ciò su cui bisogna necessariamente lavorare, con una rinnovata forza comunicativa, e il contrasto a ogni tentativo di auto-legittimazione della narrazione nichilista del terrorismo di matrice religiosa.

Nel libro “Generazione Isis” il sociologo Olivier Roy traccia i profili dei giovani che si sono uniti al califfato parlando di una forma di “islamizzazione della violenza”. “L’identificazione con la jihad e la rivendicazione dell’appartenenza a un’organizzazione islamista non sono una semplice scelta opportunistica: il riferimento all’Islam è centrale nel passaggio all’azione e stabilisce una chiara differenza con altre forme di violenza giovanile”. Nella sua disamina Roi evidenzia che “la carte del terrorismo non coincide con quella dei quartieri difficili (tranne il caso di Moleenbeek)” affermando che “il terrorismo non è l’esito del fallimento dell’integrazione”, portando proprio l’esempio della Francia, dove “sono molti di più i musulmani arruolati nelle forze dell’ordine che quelli che aderiscono alla jihad”.

Non si tratta, quindi di un problema dell’Occidente con l’islam, ma di un problema all’interno del mondo musulmano stesso, che necessita di liberarsi da ogni forma di violenza – quella degli Stati liberticidi che usano violenza contro i loro stessi popoli, generando un malcontento che crea un humus pericoloso e quella dei gruppi organizzati che sempre di più strumentalizzano concetti religiosi piegandoli ai propri fini. È un lavoro certosino, lungo e importante, in cui il contributo delle donne sarà certamente di grande valore.


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