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Paul Celan ci aveva cercati: abbiamo ancora orecchi per intenderlo?

Esce oggi per i tipi di Nottetempo l'Antologia italiana di Paul Celan. Un lavoro che sta accendendo il dibattito culturale. Vediamo perché

di Dario Borso

Otto giorni fa sul Sole24ore è comparsa una recensione a L’antologia italiana di Paul Celan che esce oggi a mia cura per Nottetempo, dove Luigi Reitani definisce “incongrua” la mia breve traduzione perché non ho trattato le vicende editoriali. In effetti ne tratto approfonditamente in Celan in Italia, che uscirà tra una settimana per Prospero Editore, preferendo lì esporre i motivi profondi che spinsero il poeta a stilare l’elenco sulla base del quale Mondadori avrebbe dovuto pubblicare l’antologia.

A metà maggio 1964 Celan lesse sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung una stroncatura in cui lo si accusava di usare arbitrariamente metafore peggio che azzardate, prima fra tutte quella ormai famosa dei “mulini della morte” a significare i lager. Quattro anni prima per questo tipo di metafore la vedova del poeta Yvan Goll lo aveva pubblicamente accusato di plagio ai danni del marito, con l’effetto di minare il suo equilibrio psichico. Ed ora questa stroncatura…

A fine maggio Celan si ritirò nella sua casa di campagna, dove il 4 giugno compose una poesia senza titolo che inviò subito alla moglie Gisèle:

Il giorno di Pentecoste 1950 Claire Goll, allora affezionatissima a Celan, gli aveva inviato un biglietto di protesta per un appuntamento mancato: “‘Pentecoste, la lieta festa era arrivata’, solo Paul no”. La citazione è l’incipit del goethiano poema eroicomico La volpe Reineke, noto in Germania allora anche agli scolaretti, dove l’astuta imbroglia tutti a suon di dialettica; e Celan non molto tempo prima di comporre questa poesia aveva riletto tutta la corrispondenza con la vedova per organizzare la sua difesa dall’accusa di plagio.

In Germania la peonia è comunemente detta Pfingstrose, “rosa di Pentecoste” perché fiorisce sotto quella festività, tra la seconda metà di maggio cioè e i primi di giugno.

Celan trasferisce la specificazione pentecostale dalle peonie (che con Gisèle aveva piantato davanti casa) a un sentiero in discesa che porta a un regno. Nel primo capitolo degli Atti degli apostoli sull’Ascensione, si parla di Reich Gottes e di Reich Israel; nel secondo sulla Pentecoste, Pietro assicura che non si verrà abbandonati al “regno della morte”, ma guidati sui “sentieri della vita”.

Trattandosi qui di una discesa, sorge il dubbio: sentiero di vita o di morte? regno di Dio o degli Inferi? Fortunatamente è l’autore stesso a fugarlo con un chiarimento postumo in forma di lapsus. Il 26 maggio 1966 infatti, dalla clinica psichiatrica dov’era ricoverato per un devastante trattamento d’insulina, con un biglietto Paul augura a moglie e figlioletto di star bene “durante questo week end di Pentecoste. – ‘Quando il pensiero sale il sentiero di Pentecoste’ ho scritto, due anni fa credo, davanti alle peonie. Ebbene, il pensiero sale – per tutti noi”, ossia per loro tre, ma già per quelli a cui in Atti, 2, 3, “apparvero delle lingue spartite, come di fuoco, e si posero su ciascuno di loro. E tutti cominciarono a parlare in altre lingue”, tutte a tutti comprensibili.

Nell’ultimo verso della poesia il “tu” del poeta, che poi è lui stesso, spera: certo, è un sentiero irto di spine, ultimissima delle quali la stroncatura sulla FAZ con annesso ricordo di quel biglietto della vedova; certo il “tu” s’insabbierà giungendo al regno, ma continuerà a sperare.

Subito dopo aver composto la sua poesia pentecostale, Celan stila l’elenco per un’antologia in italiano che Mondadori gli sollecitava da anni, e il 7 giugno 1964 lo spedisce, ricreando di fatto una piccola pentecoste, ché questo e non altro è ogni traduzione.

Giuseppe Bevilacqua invece, traduttore di tutte le poesie di Celan in un Meridiano Mondadori del 1998, sostiene che proprio nella prima metà del 1964 Celan perse ogni speranza e cominciò a premeditare il suicidio. Nella mia introduzione non manco di rilevarlo, ed è per questo che Reitani la giudica incongrua, tant’è che dedica tutta la prima parte della recensione a un’apologia non petita del Meridiano. Solo che esagera col venenum, lanciandomi in cauda un’accusa di plagio per aver io copiato le note esplicative.

Così dunque anche qui la storia si ripete da tragedia in farsa, perché io sono solo un nano, anzi un nanetto. Ma con la schiena dritta.


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