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Conte dimentica l’economia sociale (e anche l’Europa)

Mentre la Commissione a Bruxelles sta lavorando a un Action Plan per l’economia sociale e Francia e Spagna lo considerano un tema prioritario, nella 123 pagine della bozza del nostro Pnrr il termine economia sociale non compare mai, né compaiono riferimenti alle sue diverse componenti come cooperative, associazioni di volontariato, imprese sociali

di Carlo Borzaga e Gianluca Salvatori

La bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) sembra confermare che questo Governo, al di là delle dichiarazioni di facciata e nonostante le molte sollecitazioni pervenute da più parti, continui a sottovalutare il potenziale dell’enorme bacino di risorse, capacità e idee dell’“economia sociale” (definizione che include, oltre al Terzo settore, tutto l’universo delle cooperative e delle imprese sociali). Una posizione che allontana una volta di più l’Italia dall’impostazione della Commissione Europea – che non solo sta lavorando a un Action Plan per l’economia sociale, ma ha anche inserito l’economia sociale e di prossimità tra i quattordici cluster industriali su cui basare il rilancio della crescita in Europa – e dai Governi francese e spagnolo, che nei propri piani nazionali lo considerano un tema prioritario. E ciò nonostante il settore abbia in Italia un peso economico e sociale molto più significativo che altrove e l’Italia sia stata a livello internazionale uno dei paesi più innovativi nel ridefinire norme e politiche di settore.

Nelle 123 pagine della bozza di piano il termine economia sociale non compare mai, né compaiono riferimenti alle sue diverse componenti come cooperative, associazioni di volontariato, imprese sociali. Il Terzo settore è citato due volte: la prima in un sottotitolo dell’azione 2.5 (“Vulnerabilità, inclusione sociale, sport e terzo settore”, pag. 79) e la seconda, nel capitolo “Assistenza di prossimità e telemedicina” dell’azione 2.6 (pag. 87), dove ci si limita a dire che nella creazione di servizi di prossimità si prevede il coinvolgimento di “attori pubblici e privati, presenti sul territorio, così come la comunità e le associazioni di terzo settore”).

Se la quasi assenza di richiami può dipendere da un’impostazione generale del piano molto laconica nell’indicazione dei soggetti – pubblici e privati – coinvolti nella progettazione e realizzazione dei diversi interventi, va però detto che tutto il documento ha una impostazione non solo pubblico-centrica ma anche decisamente centralista, perché risulta incentrato sulla sola amministrazione centrale e non dice nulla – anche quando le competenze lo richiederebbero – del ruolo delle amministrazioni locali, dalle regioni ai comuni. Un solo esempio: chi gestirà – se non le amministrazioni comunali cui poi competerà sia l’organizzazione, probabilmente in collaborazione con cooperative sociali (formula ad oggi assai praticata) che il finanziamento dell’attività – gli “investimenti per potenziare l’offerta di nidi di infanzia e di servizi socio-educativi per la prima infanzia”? Il piano in proposito non si pronuncia.

Questa impostazione si riflette nel meccanismo di governance, anch’esso di stampo fortemente centralista. Poiché in tutto il piano non si spende una parola su come un’amministrazione centrale da anni accusata di gravi e diffuse inefficienze, che non basta certo il decreto semplificazioni a superare, sarà in grado di gestire il tutto, è naturale che quindi prevalga la tentazione di consegnare il tutto a una struttura parallela, ovviamente a controllo centralizzato. È tutto da vedere però che questa impostazione passi, sia perché le regioni e le amministrazioni periferiche hanno già iniziato a chiedere un maggior coinvolgimento, sia anche perché la Commissione europea potrebbe obiettare che le risorse straordinarie hanno lo scopo di modernizzare la macchina amministrativa, e non certo di duplicarla.

C’è da sperare che, con un piano così lontano da una definizione minimamente operativa dei progetti da realizzare, ci sarà lo spazio per delineare meglio anche il coinvolgimento del terzo settore. Purché gli estensori rimettano in discussione la prospettiva adotta nella bozza. Infatti, dall’impostazione dell’attuale testo (più che dal testo stesso, appunto silente sul tema) risulta chiaro che del complesso universo delle oltre 360mila organizzazioni che formano l’economia sociale, le uniche che il piano potrebbe prendere in considerazione sono le forme associative a cui affidare un ruolo tutto sommato marginale in ambiti riparativi e assistenziali. Manifestando in tal modo un approccio all’economia sociale in generale e al terzo settore in particolare decisamente inaccettabile, specie in un piano per la ripresa e la resilienza.

È grave infatti che si ignori come l’economia sociale e il Terzo settore siano un insieme di attori civili, sociali ed economici già impegnati, e ulteriormente impegnabili, in molte delle componenti, dei progetti e degli interventi previsti dal piano. Oltre agli esempi più noti degli asili per l’infanzia e dei servizi per la cura degli anziani e dei portatori di handicap si possono ricordare: housing sociale, inserimento lavorativo e formazione di persone con difficoltà nell’accesso al lavoro, gestione di progetti per l’impiego di giovani in servizio civile, recupero e gestione di centri sportivi e di immobili e terreni pubblici dismessi o sottratti alla criminalità organizzata, realizzazione e gestione di servizi alle comunità disagiate (e non solo), economia circolare, agricoltura sostenibile, ecc.

Un piano di questa rilevanza per il futuro del Paese non può non tenere conto di quanto anche recentemente ha ricordato la Corte Costituzionale sulla capacità del Terzo settore di cogliere bisogni trascurati dagli altri attori, di innovare l’offerta di servizi, di apportare risorse aggiuntive (umane, intellettuali e finanziarie). Così come non si può non tenere conto, in un momento in cui la coesione sociale è messa in discussione e l’incertezza per il futuro è oramai il sentimento prevalente, con evidenti rischi anche per la tenuta della democrazia, della capacità del terzo settore di creare relazioni, favorire l’impegno diretto in attività d’”interesse generale”, aiutare i cittadini ad affrontare insieme, come comunità, le difficoltà presenti e future.

A parole sembra che tutte le forze politiche siano sempre favorevoli a creare o rafforzare le comunità, ma pare che non abbiano capito che questa è destinata a restare solo un’aspirazione o uno slogan senza un ruolo attivo – e quindi riconosciuto e sostenuto – delle organizzazioni dell’economia sociale. Gli argomenti per sostenere che il Pnrr non può prescindere da una piena inclusione dell’economia sociale e del terzo settore tra gli attori chiamati a realizzarlo sono dunque molti e solidi. Limitare questa componente a funzioni marginali è una scelta politica che non va certo nella direzione della ripresa e della resilienza del Paese.


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