Sanità & Ricerca

Il lato umano del combattere il Covid in corsia, tra paura, lacrime e fatica

Gianpietro Briola oltre ad essere il presidente nazionale di Avis è anche dirigente medico del Pronto Soccorso di Manerbio dell'ASST Garda, in provincia di Brescia. Uno degli epicentri della pandemia che nella prima ondata ha messo in ginocchio l'intero territorio. Gli abbiamo chiesto cosa voglia dire vivere questi interminabili mesi di emergenza

di Lorenzo Maria Alvaro

Manerbio è un piccolo paese della provincia di Brescia, a metà strada tra Orzinuovi e Castiglione delle Stiviere. Nel cuore di uno dei territori più colpiti dalla prima ondata di Covid che ha portato l'Italia al lockdown. Qui c'è l'ospedale di Manerbio con il suo pronto soccorso, uno di quelli più messi sotto pressione dal coronavirus. A dirigerlo Gianpietro Briola che oltre ad essere medico è anche il presidente dell'Avis nazionale. Lo abbiamo intervistato per capire cosa abbia voluto e cosa voglia ancora dire stare in prima linea in questo momento per un dottore.


Lei dirige un pronto soccorso che è stato nell'epicentro della pandemia…
Siamo nel bresciano. Quindi una delle zone più colpite dalla prima ondata. I mesi prima del lockdown sono stati quelli peggiori. Adesso la situazione è un pochino migliorata. Da un lato i casi che riceviamo sono meno impegnativi e meno gravi. A questo si aggiunge la maggiore consapevolezza e conoscenza della malattia su cui abbiamo qualche idea in più dal punto di vista diagnostico e terapeutico. Nonostante questo è stato enorme lo sforzo di riorganizzazione per avere percorsi e reparti separati tra Covid e negativi.

Che tipo di esperienza è stata umanamente?
È stata un'esperienza provante e toccante. In particolare all'inizio con il presentarsi improvviso di una malattia del tutto sconosciuta, con un numero elevatissimo di decessi per altro per cause che non riuscivamo ad identificare. In quel momento non avevamo un'organizzazione adatta ad accogliere un numero così alto di pazienti molto gravi e tutti con problemi respiratori. Siamo riusciti comunque a dare una risposta a tutti dovendo prendere delle scelte alle quali non eravamo abituati. Sono state settimane drammatiche. Una delle cose più complesse emotivamente è stato essere l'unico rapporto umano di molte persone che ci sono morti tra le braccia. Non c'è scuola o università che prepari a qualcosa del genere. Con i medici più giovani che non avevano esperienze lavorative è stato difficile.

Cosa diceva a questi medici più giovani?
Gli ho detto di fare come i criceti sulla ruota. Correre e lavorare senza pensare. Solo che poi arriva sempre il momento in cui si stacca e la testa torna lì. Ho visto molti medici e infermieri a fine turno sedersi e piangere perché non riuscivano a trovare una logica razionale per spiegarsi quello che stava capitando

Come si gestisce uno stress emotivo come questo?
Una gestione complessa di un lavoro che è già complesso. In pronto soccorso è una normalità avere a che fare con le situazione più disparate e anche più drammatiche. Ma niente è mai stato paragonabile. Il supporto umano, ancora prima che psicologico è stato sostanziale. Ognuno di noi ha immagini in testa che non riuscirà mai più a dimenticare. Quello che sin da subito abbiamo cercato di fare è stato accudirci a vicenda. Quindi monitorare lo stato dei colleghi e intervenire laddove fosse necessario. Prendere il posto, ad esempio, del collega che è prostrato permettendogli di staccare.

Lei come responsabile si è preso cura dello staff. Chi si è preso cura di lei?
Naturalmente come tutti i capi sono più solo. Mi confronto con i miei colleghi responsabili degli altri reparti nelle riunioni di de-briefing e poi affronto tutto con tanto self control che si matura con l'esperienza.

E anche dal punto di vista famigliare immagino che il Covid abbia avuto un impatto…
Inizialmente moltissimo perché ho dovuto stare lontano dalla famiglia. Non potevo vedere nessuno per sicurezza. Mi sono auto isolato e vivevo solo. Adesso fortunatamente riusciamo avere una gestione migliore e ci testiamo quotidianamente. Una svolta che ci permette quanto meno di avere una vita normale.

Un altro aspetto di cui si parla poco è la paura. Come medici non avevate paura per la vostra incolumità?
La paura è stata tanta. Che abbiamo superato per dedizione al lavoro e senso di responsabilità. Abbiamo sempre usato i dpi e siamo stati molto attenti. Ma all'inizio non sapevamo neanche se le protezioni sarebbero bastate. Un altro stress che si aggiungeva al resto. Il nostro impegno è stato far prevalere la responsabilità e la deontologia.

Adesso si parla del vaccino. Quanto fa la differenza per un medico la speranza di una fine dell'emergenza?
La speranza del vaccino ci permette di lavorare un pochino più tranquilli. Nel senso che ci dà un orizzonte. Il problema vero oggi è organizzativo. Abbiamo bisogno di tornare a gestire tutti gli altri malati che in questo momento continuiamo a rimandare. Questo non solo per un servizio che funzioni ma anche perché ormai è quasi un anno che viviamo nell'incertezza. Non c'è niente di peggio di vivere una situazione in cui ogni routine, prassi, protocollo e sicurezza sia venuta meno a tempo da definire.

Lei è anche presidente di Avis, una grande associazione di volontariato. Questa esperienza quanto è stata utile in questa sfida professionale?
Un'esperienza che è stata fondamentale sicuramente dal punto di vista umano ed di empatia. Facendo volontariato ci si costruisce una sensibilità nei confronti del bisogno e nell'individuarlo che è sicuramente più forte e specifica e che in questa fase ha aiutato molto. Ma è stata fondamentale anche professionale. In questi mesi entravamo in ospedale alle 6 di mattina per uscirne come minimo alle 22. Questo dovendo gestire l'inedito e l'imprevisto costantemente. Il lavoro volontario avviene nel tempo libero ed è molto formativo da questo punto di vista perché abitua a lavorare con questi ritmi e costantemente a contatto con la novità. Aiuta molto nella capacità di sintesi e nel problem solving.


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