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Lottieri: «Nell’America divisa va in scena lo sfacelo del potere centrale, non la fine della democrazia»

L’estremismo, spiega il politologo, non è all’origine della crisi profonda della democrazia americana, ma «segnala la gravità di una situazione da tempo compromessa. Perfino «il cospirazionismo più ridicolo non è comprensibile se non si guarda al modo in cui si è strutturato il potere federale americano» e alla crisi, oramai irreversibile, della centralizzazione

di Marco Dotti

Si fa presto a dire «America». Si fa presto a dire «democrazia», «crisi», «populismo». Difficile, al contrario, cercare di collocare fatti ancora caldi in uno scenario certamente in evoluzione, ma di lunga durata. Per capire cosa sta accadendo sulle frontiere mobili questo scenario ci facciamo guidare da Carlo Lottieri.

Studioso libertario, politologo, Lottieri insegna Filosofia del Diritto all’Università degli studi di Verona. Direttore del dipartimento Teoria politica dell’Istituto Bruno Leoni, ha da poco pubblicato, per i tipi di Liberilibri, Per una nuova Costituente. Liberare i territori, rivitalizzare le comunità.

Professor Lottieri, partiamo dal discorso dei media italiani: il refrein è che «la più antica democrazia del pianeta sia in pericolo». Si è creato questo abbinamento: “la più antica democrazia”, “è in pericolo”. La prima domanda che le pongo è questa: è attendibile questa rappresentazione? La seconda domanda è una conseguenza della prima: incide davvero sulle strutture democratiche profonde quello che è successo a Capitol Hill o dobbiamo allargare il discorso?
Mi pare si tratti di una descrizione superficiale. Indubbiamente la società americana è crisi: perché è in crisi l’intero Occidente e anche per ragioni specifiche, su cui vale la pena di soffermarsi.
Quando si riduce l’America alla sua dimensione democratica (simboleggiata dalla periodica elezione del presidente) si trascurano alcuni elementi cruciali: due in particolare. Il primo è che l’America è sempre stata una realtà molto articolata: un insieme di comunità diversissime che hanno imparato a coabitare le medesime istituzioni. Il secondo è che questa convivenza è stata resa più facile, sul piano storico, dal fatto che l’esperimento americano è sempre stato basato su quell’autogoverno dei singoli stati che ha lasciato che lo Utah fosse molto diverso dalla California, che il Massachusetts avesse davvero poco a che fare con il Texas.
La centralizzazione del potere – legata al crescente peso di Washington e della presidenza – ha finito per rendere difficile quella convivenza di religioni, culture, storie ed etnie. Se oggi l’America è una polveriera questo dipende in larga misura da questa unificazione contro natura.

Per giunta, negli ultimi decenni abbiamo assistito a una radicalizzazione del conflitto politico. Chi oggi vada a scorrere la letteratura politologica degli anni Sessanta e Settanta troverà come, mezzo secolo fa, fosse convinzione diffusa che tra i due candidati alla presidenza avrebbe vinto quello meglio in grado di catturare il cosiddetto “elettore mediano”: quel tipo di elettore un po’ a metà strada tra i repubblicani e i democratici. Ora non è più così, perché vince chi meglio riesce a mobilitare il proprio elettorato: e questo spiega il successo di Donald Trump a destra, ma anche – sul lato opposto – di Bernie Sanders e di Alexandra Ocasio-Cortez.

Dall'indignazione al disprezzo

Perché succede?
Perché cresce ovunque il disprezzo nei riguardi dei governanti, del loro cinismo, della loro corruzione. L’estremismo non è all’origine della crisi profonda della democrazia americana, ma semmai segnala la gravità di una situazione da tempo compromessa. Perfino il cospirazionismo più ridicolo (si pensi a QAnon) non è comprensibile se non si guarda al modo in cui si è strutturato il potere federale americano, e tutti i suoi aggregati economici e culturali, nel corso degli ultimi decenni. Eppure basterebbe leggere qualche romanzo di Gore Vidal (penso in particolare a L’età dell’oro ) per cogliere quanto siano profonde le difficoltà della società statunitense.

Molti vedono in Trump il problema, ma questo porta a sottovalutare un altro fatto: la gente, anche in un contesto come quello statunitense, pare sempre più esasperata dalla situazione. Una situazione di pandemia che ha però influito sul piano sociale, economico, politico. Ci aiuta a leggere questa situazione?
Quello che pochi hanno inteso è che quattro anni fa il voto “per” Trump è stato anche e soprattutto un voto “contro”. Certamente contro una signora, Hillary Clinton, che era stato a lungo Segretario di Stato, dopo essere stata la first lady d’America, e che simboleggiava l’apparato elitario della politica washingtoniana. Ancor più, però, scegliere di votare Trump nonostante tutti i suoi limiti ha significato, per molti, bocciare quell’intreccio di interessi e ideologie che da tempo immemorabile tiene assieme i vertici della società statunitense.

L’America è sempre più divisa e nel contesto politico americano l’attacco a Capitol Hill attesta lo sfacelo del potere centrale statunitense. Un corpo di polizia composto da 2.000 agenti con un budget annuale di 460 milioni di dollari non è riuscito a impedire l’ingresso di un gruppo di esaltati, causando persino la morte di alcuni di loro

Carlo Lottieri

La pandemia, che ovunque ha reso possibili soluzioni “autoritarie” e con esse la sospensione delle libertà fondamentali, è stata il cerino che ha infiammato tutto. Anche oltre Oceano, molti hanno avvertito che in questo “stato di eccezione” i signori di sempre stavano trovando una formidabile opportunità, che ora stanno sfruttando in tutti i modi. E poi c’è stato il pasticcio dei voti, con la questione – ancora apertissima – delle schede postali, che hanno rovesciato taluni verdetti che a una certa ora del 4 novembre parevano favorevoli a Trump e poi si sono rivelati favorevoli a Biden.

Nessun populismo è gratis

Si parla di populismo per inquadrare quanto è accaduto. Al di là dei fatti, la categoria le appare pertinente?
Se è populismo promettere benefici a costo zero sulla base di ricette spesso ridicole, come hanno fatto Trump e Sanders in tutti questi anni, siamo dinanzi a fenomeni populisti: senza dubbio. Ma egualmente è populismo, come da decenni fanno le forze moderate e/o progressiste, difendere politiche discriminatorie a favore di questo o quel gruppo – le donne, gli ispanici, i neri, i gay, ecc. – sostenendo che questo aiuterà i membri di quelle categorie a trovare uno spazio adeguato nella società (anche se poi, nei fatti, le cose non stanno così). La politica è sempre in qualche modo populista, perché dinanzi a una fabbrica che chiude è molto facile difendere quei posti di lavoro e salvarli con il soldo pubblico, anche se quella tassazione impedisce la creazione di molti più posti di lavoro altrove.

In questo senso, l’uso che si fa oggi del termine “populismo” è strumentale.
Soprattutto esso sembra voler nascondere il disagio profondo della società americana: come se l’invasione di Capitol Hill fosse soltanto l’azione di un microscopico gruppo di facinorosi.

Censura per tutti

Mi dà un suo commento alle parole di Donald Trump? Parole che hanno portato alla chiusura del suo profilo Facebook…
Trump ha invitato a tornare a casa e a non usare violenza, anche se ha ribadito che a suo giudizio le elezioni sono state falsate da frodi. Trump è un politico e certamente sta già ora preparando le condizioni per una sua rivincita alle prossime elezioni: su questo mi pare non ci siano dubbi. Sono parole che non mi sorprendono.

​La centralizzazione del potere – legata al crescente peso di Washington e della presidenza – ha finito per rendere difficile quella convivenza di religioni, culture, storie ed etnie. Se oggi l’America è una polveriera questo dipende in larga misura da questa unificazione contro natura

Carlo Lottieri

Più interessante, però, è vedere come Facebook, Google e gli altri potentati dell’informazione – ma lo stesso vale per larga parte della finanza e dell’industria – siano integrati in quel establishment contro cui va crescendo un profondo senso di insoddisfazione: a destra e a sinistra. Lo vediamo in questo caso, ma anche nelle linee guida adottate in tema di informazione quando si ha a che fare con il Covid-19. So di medici e studiosi che hanno visto cancellati i propri contributi, solo perché non allineati alle direttive politiche del momento. Siamo insomma in una situazione sempre più compromessa, dove il meccanismo censorio sta facendosi generalizzato.

Cosa dobbiamo aspettarci tutto questo?
In linea di massima, nulla di buono. La narrazione prevalente si limita contrapporre il bene e il male. C’è un manicheismo di comodo che è funzionale agli interessi e ai valori di quanti contano: a Wall Street come a Washington. È al tempo stesso vero che le risposte al Covid-19 sono talmente irrazionali, arbitrarie, illiberali e alla fine costose (il prezzo più alto lo stanno pagando i più deboli e i meno tutelati) che questo finirà per creare contraccolpi imprevisti.
L’America è sempre più divisa e nel contesto politico americano l’attacco a Capitol Hill attesta lo sfacelo del potere centrale statunitense. Un corpo di polizia composto da 2.000 agenti con un budget annuale di 460 milioni di dollari non è riuscito a impedire l’ingresso di un gruppo di esaltati, causando persino la morte di alcuni di loro.
Dinanzi a questo crescente discredito sulle istituzioni unitarie, è possibile che gli americani tornino a guardare ai loro stati: alle istituzioni a loro più vicine. Potrebbe allora rinascere quella divisione territoriale del potere che è stata la vera garanzia delle libertà americane fin dall’inizio, la quale potrebbe tornare a dare un contributo importante alla ricostruzione di una vita civile più decente.


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