Attivismo civico & Terzo settore

Laboratorio Australia: pillole di innovazione dal fundraising dell’altro mondo

L'intervento del direttore Business Development della Global Evergreening Alliance: «Il concetto chiave è pivoting, ovvero mantenere il focus sul proprio core business usando al contempo la flessibilità aziendale per esplorare nuove direzioni strategiche e lanciare nuovi servizi e prodotti». Venerdì 22 la presentazione on line del 6° Italy Giving Report di Vita, con tutti i numeri sulle donazioni degli italiani nel 2020 e un focus sui nuovi modelli di raccolte fondi

di Federico Marcon

Su una popolazione di 25 milioni di abitanti ad oggi la ACNC (Australian Charities and Not-for-profits Commission) conta oltre 56.000 charities. Una ogni 446 abitanti. Impallidiamo di fronte all’Italia, dove gli ultimi dati Istat disponibili indicano circa 360,000 istituzioni non profit su una popolazione di circa 60 milioni. Una ogni 160 abitanti. In Australia abbiamo la forte convinzione di essere un paese perfetto per testare nuove idee. Popolazione giovane e dinamica, pochi rischi a livello di reputazione (fallire qui non è lo stesso che fallire a New York, essendo la cassa di risonanza molto inferiore), un livello medio di ricchezza e sensibilità per i temi sociali che rappresenta un terreno fertilissimo. Nei miei 6 anni ho cambiato vari lavori (approffitando di un mercato del lavoro estremamente dinamico dove le persone tendono a cambiare organizzazione generalmente in 3-5 anni): ho lavorato per il maggior erogatore di servizi di supporto alla disabilità del paese, per grandi ONG internazionali (World Vision, Plan International, WaterAid), per la Croce Rossa Australiana ed attualmente sono il Direttore di Business Development per la Global Evergreening Alliance (https://www.evergreening.org/), una Alleanza mondiale che riunisce più di 40 organizzazioni umanitarie ed ambientaliste per implementare progetti di rigenerazione del suolo e degli alberi per permettere ai contadini di migliorare la resa delle loro colture, lavorare su prodotti agricoli maggiormente resistenti al cambiamento climatico ed al contempo generare crediti di carbonio certificati da vendere sul mercato per compensare le emissioni di CO2.

In questo breve periodo mi sono trovato a lavorare su ventures di assoluto valore per quanto concerne l’innovazione. Sul tema disabilità, siamo passati da un modello di erogazione di servizi tradizionale ad un nuovo schema chiamato NDIS (National Disability Insurance Scheme) dove sostanzialmente alle persone con disabilità ed alle loro famiglie viene assegnato un budget annuale e dei servizi di tutoring/mentoring per indirizzare le loro scelte di acquisto servizi in un mercato aperto. In un’altra organizzazione abbiamo elaborato – in collaborazione con il Governo e fondi di investimento – il primo Development Impact Bond per finanziare progetti di educazione nel Pacifico. Ho avviato una partnership con una delle principali Università di Melbourne con la quale abbiamo stampato localmente nel Pacifico pezzi di ricambio per toilets in 3D, utilizzando plastica riciclata ed alimentando la stampanti con energia solare. Abbiamo lanciato una piattaforma digitale attraverso la quale i sostenitori dell’organizzazione potevano effettuare donazioni in cryptocurrency, oltre ad utilizzare lo strumento blockchain per tracciare e monitorare l’invio di materiale sanitario in paesi in via di sviluppo. Alla Croce Rossa abbiamo iniziato un partenariato con Uber per utilizzare i loro servizi ed autisti – a titolo completamente gratuito – per raccogliere vestiti usati e portarli ai centri di raccolta gestiti dalla Croce Rossa, pronti ad essere riciclati e forniti a persone in difficoltà.


Le idee ed il coraggio di cambiare marcia non mancano. A mio parere questo è uno dei principali vantaggi dell’avere una forza lavoro molto mobile, il che permette alle organizzazioni di non affezionarsi troppo al passato ed a ciò che ha funzionato negli anni. Qui il concetto è ribaltato: occorre dare una valida ragione sul perchè bisognerebbe non cambiare, dato che il feeling generale – soprattutto nel nostro settore – è che, come diceva Eraclito, il cambiamento è l’unica costante.
Tutta questa impalcatura è ovviamente stata messa a dura prova nel 2020, quando l’Australia è stata colpita non solo dalla pandemia globale, ma anche dai terribili incendi che si sono sviluppati tra Settembre 2019 e Marzo 2020, devastando oltre 180.000 chilometri quadrati di vegetazione, distrutto circa 6.000 edifici e ucciso oltre 30 persone. In termini economici, le stime più recenti parlano di danni per oltre 100 miliardi di dollari australiani, equivalenti a circa 65 miliardi di euro. Appena siamo riusciti a mettere fuori la testa dalla stagione dei fuochi, il Covid si è presentato alla porta. Pur essendo i nostri numeri molto differenti dai tragici resoconti che si sentono in Italia ogni giorno (dall’inizio della pandemia abbiamo avuto quasi 29.000 casi e meno di 1.000 morti in totale), le misure di contenimento e prevenzione sono state simili, se non addirittura più dure. Scuole chiuse per 6 mesi, lockdown rigido per 2 mesi, la maggior parte dei negozi chiusi per circa 3 mesi. Il Covid qui non ha creato nuove consistenti sacche di povertà, perchè il Governo è prontamente intervenuto (il lusso di non avere debito pubblico!) erogando sussidi piuttosto corposi (3.000 dollari australiani al mese) a coloro che avevano perso il lavoro. Ma certo ha creato maggiore marginalizzazione e disiguaglianze, rendendo ancora più importante il lavoro del nostro settore per mantenere la società coesa e funzionale.

Qual è stata la reazione del non profit australiano nel fronteggiare due crisi che sono certamente senza precedenti nella storia del Paese? Tutto racchiuso in una sola parola: pivoting. Le charities hanno speso energie e risorse per compiere rapidamente questo esercizio, che in soldoni significa mantenere il focus sul proprio core business usando al contempo la flessibilità aziendale per esplorare nuove direzioni strategiche e lanciare nuovi servizi e prodotti. La lezione appresa è che formulare strategie operative quinquennali – come si usa qui – è utopico, viste le volatilità che si possono presentare. Meglio mantenere l’orizzonte quinquennale per intento strategico supportato da un piano di realizzazione triennale.

Riavvolgo il nastro e torno alla stagione degli incendi, in quanto abbiamo assistito ad un cambio di paradigma incredibilmente affascinante per quanto concerne il fundraising. L’Australia, che generalmente è un provider di fondi ad altri paesi e non certo un recipient, si è trovata a ricevere offerte di aiuto finanziario non solo dai paesi europei e dagli USA, ma anche da paesi – come ad esempio la Papua Nuova Guinea e Vanuatu – cui da sempre l’Australia fornisce centinaia di milioni per progetti di cooperazione allo sviluppo. Il che ha provocato un dibattito piuttosto interessante: è etico, per un paese fondamentalmente ricco come l’Australia, accettare soldi da un paese in via di sviluppo? Il Governo australiano ha avuto un atteggiamento neutro, figlio di una emergenza cosi’ tremenda nella quale probabilmente non si voleva discettare eccessivamente sull’eticità degli aiuti. E siamo arrivati a paradossi come un Gruppo di giovani della Papua Nuova Guinea che hanno raccolto 60 mila dollari per aiutarci. Come se un Gruppo di giovani libici avesse inviato fondi dopo il terremoto di Amatrice, per fare un paragone ardito.

In Australia Celeste Barber, un’attrice neanche troppo famosa da queste parti, ha deciso di avviare una campagna di fundraising su Facebook in support ai pompieri delle zone rurali dello stato del Nuovo Galles del Sud. Probabilmente sperava di racimolare qualche migliaia di dollari. Calcoli sbagliati. In maniera assolutamente imprevista ed inaspettata, il suo appello ha raccolto oltre 51 milioni di dollari australiani!!!!! Con il conseguente problema, presentatosi immediatamente alla Barber, di come spendere tutti quei soldi, visto che le necessità economiche del corpo dei pompieri erano certamente molto inferiori. Tant’è che si è finiti in Tribunale per deliberare se parte dei soldi potessero essere reindirizzati ad alter organizzazioni che lavorano sul post-incendio. I giudici, in piena coerenza con il sistema locale basato sulla donor promise (le organizzazioni non posso reindirizzare altrove fondi donati per un determinato appello, in quanto tradirebbero il legame di fiducia con il donatore che ha deciso di supportare quella specifica causa), hanno confermato come i soldi potessero solo essere spesi per acquistare materiali ed attrezzature, erogare formazione e coprire le spese amministrative del corpo dei pompieri per cui l’appello era stato lanciato. Con l’unica concessione secondo cui i fondi possono essere erogati per aiutare le famiglie dei pompieri deceduti durante le operazioni di contentimento degli incendi.


Un altro piccolo dramma (mi perdonino i fundraisers all’ascolto, che lottano 24 ore al giorno per raccogliere fondi per le loro organizzazioni) si è consumato alla Croce Rossa Australiana. L’organizzazione ha lanciato un appello per raccolta fondi nel Luglio 2019, quando le prime avvisaglie di incendi su larga scala si sono rivelate nel Queensland. In circa 18 mesi sono stati raccolti – tramite donazioni private – oltre 240 milioni di dollari australiani. Io avevo già lasciato la Croce Rossa prima di tali eventi ma – giusto per darvi un’idea – il team di cui ero a capo, e che appunto era responsabile per la raccolta fondi da privati (comprese aziende e istituzioni filantropiche) raccoglieva annualmente intorno ai 35 milioni di dollari. Una quantità di denaro cosi’ importante ed inaspettata ha messo in enorme difficoltà l’organizzazione, il cui ritmo di rilascio dei fondi per la realizzazione di progetti è stato cosi’ lento da finire sulle prime pagine dei giornali con accuse di eccessiva burocrazia, scarso interesse per la popolazione in emergenza ed egoismo istituzionale.


Abbiamo assistito visto live ad uno dei grandi paradossi che affliggono da sempre il nostro settore. Quando la Croce Rossa ha deciso – giustamente, a mio parere – di assumere nuovo personale che potesse avviare e gestire un fondo ad hoc per l’emergenza, separato dalle sue operazioni regolari, le stesse prime pagine dei giornali hanno gridato allo scandalo per le eccessive spese amministrative, contrapponendo il povero contadino australiano il cui raccolto era andato distrutto al lussuoso ufficio della Croce Rossa in centro a Melbourne. Travolta da questa ondata di critiche, l’organizzazione ha fatto un passo indietro, dichiarando pubblicamente che avrebbe tagliato le spese amministrative e di gestione dal 10% (che è lo standard minimo per il non profit su donazioni ricevute e grants governativi) al 4%. Provocando un effetto a catena per cui l’opinione pubblica ha visto confermata la propria idea che le charities tendono a gonfiano i propri costi (“se la Croce Rossa può più che dimezzare le spese amministrative vuol dire che prima ci facevano la cresta, e con loro tutto il settore”) e con il risultato finale che a Natale 2020 dei 240 milioni raccolti solo 201 milioni sono stati spesi, con un unspent di quasi il 17%.

Poi è arrivato Mr. Covid. E qui il settore si è ribaltato completamente. Alcune organizzazioni che da tempo stavano soffrendo un declino importante nelle loro entrate hanno usato la scusa Covid per effettuare ristrutturazioni piuttosto drastiche, adottando misure che in altri periodi sarebbero stati vist come dei veri e propri bagni di sangue. Altre – soprattutto le grandi ong che generalmente fanno maggiormente fatica a cambiare direzione strategica in breve tempo – hanno capito che essere nimble and flexible non può solo essere un manifesto ma deve diventare la strada maestra per gestire organizzazioni che lavorano in un campo in continuo cambiamento.

World Vision, di gran lunga la più importante e potente ong internazionale nel paese, ha fatto in 6 mesi quello che era stato in pipeline per 10 anni. Rivedere il proprio business model di child sponsorship (adozione a distanza) che da anni sostiene in maniera importante le finanze di World Vision, ma che negli ultimi 5 anni – secondo un fenomeno visible in tutte le parti del mondo – soffriva un inesorabile declino. Dopo avere provato – con poco successo – il passaggio da child sponsorship a community/church/school sponsorship (in cui sostanzialmente un donatore non adottava un singolo bambino, ma un’intera comunità/chiesa/scuola), World Vision ha lanciato il suo nuovo prodotto: oggi non è più il donatore che sceglie il bambino da adottare, ma viceversa. Lo sponsor deve preparare un proprio dossier che sarà inviato al bambino, il quale potrà scegliere tra vari candidati quello che più gli/le aggrada. Concetto rivoluzionario, sicuramente, probabilmente più a livello di marketing/communicazione che a livello operativo. Ai posteri l’ardua sentenza se questo prodotto funzionerà, ma ciò che è certo è che tutto il processo di ridefinizione dell’offerta è stato accorciato di anni, grazie al COVID.

Oxfam ha finalmente deciso di chiudere tutti i propri negozi di fairtrade, che da anni erano in perdita. Se da un punto di vista economico la decisione avrebbe avuto senso molti anni fa, vi era stata sempre una certa riluttanza da parte dell’organizzazione, in quanto la presenza in questo ambito era da sempre un tratto distintivo di Oxfam ed una carta commerciale che portava benefici indiretti. Almeno secondo quanto dichiarato dall’organizzazione, anche se le prove di tali benefici non sono mai state documentate ufficialmente. In questa nuova congiuntura Oxfam, come altri, ha deciso di focalizzarsi sulle aree di business che sono più vicine alla loro mission e mandato e che possono garantire una sostenibilità economica di lungo termine.

Ne uscirà un settore non profit migliore da questi due folli anni? Io sono convinto di sì, con meno gigantismo istituzionale ed una ancora più accentuata flessibilità nello sperimentare servizi/prodotti e modelli di business innovativi, che possano attrarre maggiori investimenti privati liberando il non profit dal soffocante abbraccio mortale della dipendenza dai fondi istituzionali.

Nella foto di apertura Marcon in Papua New Guinea con un capo villaggio locale


IL WEB TALK: LA PRESENTANZIONE DEL 6° ITALY GIVING REPORT


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