Welfare & Lavoro

E se guardassimo SanPa con le lenti della sussidiarietà?

Il docufilm di Netflix si presta a una riflessione più generale, che trascende dalla ricostruzione dei fatti. Dal racconto si possono estrapolare quattro archetipi: il giudice istruttore, che esprime il potere giudiziario; il responsabile del Sert che rappresenta la pubblica amministrazione; il sindaco che esercita il potere politico locale. E poi Muccioli, che incarna, quasi messianicamente, l'autonoma iniziativa della società civile

di Luca Gori

La serie di successo SanPa di Netflix offre l’occasione per una riflessione più generale, che trascende dalla ricostruzione dei fatti – sui quali non ho conoscenze per potermi esprimere, se non dicendo che ho trovato la serie assai interessante – e che si può condensare in una considerazione: la sussidiarietà è, anche, conflitto.
Spesso, infatti, si ha una visione edulcorata della sussidiarietà. È vero che essa, fisiologicamente, presuppone una collaborazione fra potere pubblico e soggetti privati, affinché l’autonoma iniziativa dei cittadini possa trovare spazio e forme adeguate di espressione, rispetto alle quali il “pubblico” non mantiene solo un atteggiamento di astensione (sussidiarietà per abbandono, come è stata definita), ma individua misure di promozione, nella convinzione che quei cittadini, attivandosi, possano più efficacemente intercettare i bisogni, le attese, le speranze della comunità (lo ha ben detto la Corte costituzionale nella recente sentenza n. 131 del 2020). Queste attività dei cittadini sono qualificate come di “interesse generale” dalla Costituzione, poiché esse trascendono il puro interesse pubblico – incarnato dalle pubbliche amministrazione – e sono svolte su iniziativa dei cittadini, attraverso i cittadini ed a beneficio dei cittadini. In questo senso, esse sono di “interesse generale”.

SanPa, però, ci racconta un’altra storia, ed è molto istruttivo – a mio avviso – leggerla attraverso la lente della sussidiarietà. Ci rivela un dato che, più di recente, non si è più abituati a considerare: la sussidiarietà può essere molto conflittuale. Quando l’autonoma iniziativa dei cittadini non solo è considerata come “indifferente” ma è addirittura ritenuta negativa da parte del potere pubblico, si innesca il conflitto. Chi ha ragione? Chi incarna, in quel momento, l’interesse pubblico per come codificato (o non codificato) dalla legge? Oppure, chi provoca il cambiamento attraverso l’esercizio della sussidiarietà? E come si risolve il conflitto?

Ci sono alcune figure che colpiscono nella serie. Potrebbero essere considerati quattro archetipi: il giudice istruttore (Andreucci), che esprime il potere giudiziario; il responsabile del Sert (Montecchi), che rappresenta la pubblica amministrazione; il sindaco (Pierini), che esercita il potere politico locale. E poi Muccioli, che incarna, quasi messianicamente, l'autonoma iniziativa della società civile.

Il dato di partenza è drammaticamente rappresentato da tutte le voci “narranti”: al problema dell’eroina non c’era alcuna risposta affidabile da parte del pubblico e l’opinione pubblica era assai distratta. Muccioli, all’epoca, costituiva l’iniziatore di una delle poche iniziative strutturate con una visibilità sul piano nazionale (a quanto appare dalla serie, anche se il dato è stato contestato da altre realtà).

Quando la vicenda approda sul banco del giudice (per la vicenda dell’incatenamento di alcuni ospiti), essa manifesta tutta la complessità della sussidiarietà. Racconta il Giudice istruttore Andreucci che le comunità, in generale, all’epoca erano gestite da persone di buona volontà, ma non adeguatamente preparate. L’iniziativa riminese, quindi, nell'opinione del giudice, pur manifestando grosse disfunzioni, non andava repressa, perché l’intuizione era buona, ma doveva essere accompagnata verso un’evoluzione. Infatti, dapprima il Giudice dichiara di aver liberato Muccioli dalla carcerazione preventiva sulla base dell’impegno dello stesso a gestire in una certa modalità la comunità (ad es., aprirsi agli enti pubblici) e, successivamente, adotta una ordinanza di divieto di accesso di altri ospiti. Ordinanza che – come racconta lo stesso Andreucci – altre parti della magistratura (quindi, dello stesso potere giudiziario cui egli apparteneva!) violarono, disponendo l’accesso di nuovi ospiti.

Colpisce che la sentenza di primo grado (Trib. Rimini, 16 febbraio 1985) censuri pesantemente quella scelta del giudice istruttore, ritenuta abnorme. Muccioli – si legge nella sentenza – svolge la sua attività «in base alla propria iniziativa personale», e non in base ad un riconoscimento pubblico o ad una autorizzazione pubblica, ed a lui non possono applicarsi misure accessorie, in quanto privato gestore. Si aggiungono, con ricchezza di riferimenti di letteratura, richiami scientifici al “metodo” utilizzato ed alla sua validità, per contestare la fondatezza anche nel merito delle scelte del giudice istruttore.

Sorge una domanda centrale: spetta alla magistratura, nell’esercizio delle due funzioni, “agevolare” o “indirizzare” l’esercizio di una attività ritenuta da tutti – anche dal giudice – di interesse generale? La risposta pare negativa: al giudice penale spetta perseguire i reati, ove siano accertati, ma non risolvere il contrasto “politico” fra una autonoma iniziativa dei cittadini e ciò che la legge qualifica come interesse pubblico e, dunque, dare attuazione alla sussidiarietà.

Suscitano poi un certo stupore le immagini dei giudici del Tribunale di Rimini che vanno in sopralluogo a San Patrignano. Quasi l’immagine dello Stato che, per la prima volta, si affaccia a “guardare” il problema della droga. Il Pubblico ministero lascia trasparire sorpresa (!) per i positivi risultati raggiunti; Muccioli illustra a mo’ di guida la comunità e le sue attività al Tribunale; Red Ronnie incalza il Presidente del Collegio giudicante, domandandogli se lui – come rappresentante dello Stato – non si sia “presentato troppo tardi” a SanPa: ed il Presidente, con ironia (non saprei dire se involontaria), risponde “ma sono appena le dieci del mattino!”. Nel giudicare della pena, scriverà il Tribunale che “un numero apprezzabile di giovani, che non è stato possibile precisare con sicurezza, ha recuperato dopo la permanenza a S. Patrignano (…) le proprie risorse personali per affrontare nuovamente la vita. (…) A ciò si aggiunga il fatto di grande rilievo costituito dalla speranza suscitata in tante famiglie ed in tanti giovani che si sono rivolti a S. Patrignano, pur ignorandone le deficienze, con un’ansia ed un’aspettativa che costituiscono già di per sé, in molti casi, il primo passo di reinserimento nella società. La comminazione della pena (…) deve essere, a parere del Tribunale, particolarmente mite e commisurata a tutto l’insieme della vicenda”.

C’è poi il ruolo dell’amministrazione. Il responsabile del Sert Montecchi afferma che, all’epoca, la diversità di approccio fra i servizi sanitari e San Patrignano era tale da non potersi individuare alcun terreno di possibile collaborazione. Muccioli usa parole molto dure nei confronti dell’intervento pubblico fondato sulla somministrazione del metadone. Cosa si può apprendere, da questa vicenda? Affinché la sussidiarietà possa essere messa in azione, occorre costruire una dinamica relazionale, dialogica e collaborativa. Ciò richiede uno sforzo bilaterale – della P.A. e del Terzo settore – per la costruzione di un terreno comune di confronto che, all’epoca, non risultava praticabile. Come si regolano, allora, questi rapporti non collaborativi, ma di reciproca autonomia? Montecchi all’epoca pareva essersi arreso, nelle sue parole, all’idea di due canali paralleli: Stato, da una parte, e Terzo settore, dall’altra; Muccioli, in forme ideologiche, rivendicava tale autonomia, anche finanziaria, rispetto allo Stato.

Vi è poi la figura del Sindaco di Coriano. Egli si fa interprete, sul piano istituzionale, delle perplessità dei cittadini che – intervistati – esprimono dubbi sulla collocazione geografica (quasi una sindrome Nimby!), sui mezzi e sulle persone. Il Sindaco ricorre a toni molto scettici (sulla persona di Muccioli e sull’esperienza) e si accorge di non avere strumenti adeguati per fronteggiare la situazione: colpisce che, come rappresentante della comunità locale, si lamenti di essere bypassato da Muccioli che sceglie come interlocutori i politici nazionali, dimenticandosi quasi del territorio nel quale opera. C’è una “cerniera” rotta fra SanPa e la comunità di riferimento, a quanto appare dalla serie: come se fosse una “bolla” di sussidiarietà in un corpo estraneo.

Eppure, il grande convitato di pietra di questa vicenda, per come traspare dalla serie, è la politica. Non perché sia assente (anzi, è fin troppo presente!), ma perché essa pare abdicare al proprio ruolo: blandisce l’esperienza, la vezzeggia, la accarezza ritenendola come possibile fonte di legittimazione e di consenso. Omette, però, di svolgere la funzione che gli è propria nell’ottica della sussidiarietà: cogliere il fermento operante nella società civile, decifrarne le caratteristiche, porlo a confronto gli orientamenti della amministrazione, aprire una discussione politica, verificare l’adeguatezza delle norme, predisporre misure di supporto, integrare l’offerta pubblica con quella privata, ampliare la protezione dei diritti, ecc.

Nel racconto, invece, si stagliano solitarie, la figura titanica di Muccioli e quella dei rappresentanti "di frontiera" dello Stato (il giudice, il medico e il sindaco). Sullo sfondo c’è una umanità sofferente, amplissima, di giovani e famiglie perdute che vedono in SanPa la risposta che lo Stato non solo non offre, ma che non riconosce e non vede, se non in termini conflittuali.

La sussidiarietà è tessitura di rapporti fra il pubblico ed il privato, affinché quella umanità possa considerarsi integrata e “curata”, in tutti i modi in cui ciò è possibile (azione pubblica, iniziativa privata, volontariato, ecc.). Forse questa serie – che ha avuto il merito di risollevare il dibattito su vicende importanti di un Paese che subiva i colpi di trasformazioni (e fallimenti) troppo repentini dei decenni precedenti – può insegnarci qualcosa su una cultura della sussidiarietà ancora troppo poco definita e accettata?


*Scuola Superiore Sant’Anna-Centro si ricerca Maria Eletta Martini


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