Sanità & Ricerca

Melazzini: la legge della Lombardia? Va applicata, non cambiata

L' intervento dell'amministratore delegato dell'Ics Maugeri nel dibattito lanciato sul numero di Vita magazine di febbraio dedicato alla salute di prossimità: "è agli atti, che quella riforma prevedeva che in ospedale fossero erogate le prestazioni limitate alle fasi acute e alla diagnostica ad alta specialità e complessità. La gestione della quotidianità del paziente cronico avrebbe dovuto essere gestita dai nuovi strumenti di gestione"

di Mario Melazzini

Un anno fa, con il caso Codogno e l’esplosione dell’epidemia di Coronavirus, la sanità lombarda fu oggetto di numerose accuse: non tutte prive di ragione, quasi tutte estremamente ingenerose. Con l’escalation delle infezioni da Covid-19, il dibattito sulla salute pubblica ha riscoperto il tema della medicina territoriale, cioè la presa in carico del cittadino che non ha bisogno di ricorrere all’ospedale per avere le risposte ai bisogni di salute che presenta.
Lo sforzo che dovremmo produrre è quello di raccogliere le osservazioni che possono contribuire a migliorare il sistema, tutelando le vette di indiscutibile eccellenza raggiunte.


Ripartendo, a mio avviso, da quella legge 23 del 2015, che si proponeva di ammodernare il sistema dei servizi nella regione Lombardia e i cui effetti negativi ci sono stati sì, ma solo nella parte rimasta inapplicata di quel grande progetto di riforma. Quel provvedimento nacque in un contesto di tagli decisi dai governi nazionali che mettevano seriamente in crisi la possibilità di garantire il diritto alla salute dei cittadini. I principi che lo ispirarono furono la sostenibilità economica e la prossimità al paziente. “Dalla cura al prendersi cura”, si disse alla presentazione dei lavori propedeutici alla legge 23. E che non fosse solo uno slogan fu dimostrato dalla riorganizzazione sul territorio del modello burocratico, che consentì risparmi rilevanti da reinvestire in favore dei servizi sanitari e socioassistenziali.

Allora l’idea fu quella di suddividere i servizi definendo cinque aree: prevenzione, fase acuta (rete ospedaliera), rete territoriale e presa in carico del paziente cronico, non autosufficienza, cure palliative. È scritto, è agli atti, che quella riforma prevedeva che in ospedale fossero erogate le prestazioni limitate alle fasi acute e alla diagnostica ad alta specialità e complessità. La gestione della quotidianità del paziente cronico avrebbe dovuto essere gestita dai nuovi strumenti di gestione: i Pot (Presidi Ospedalieri Territoriali), i Prest (Presidi socio sanitari territoriali) ai quali veniva demandata l’assistenza per i non acuti, le cure domiciliari, la specialistica ambulatoriale; oltre altri strumenti come le Aft (Aggregazioni funzionali territoriali), in cui è fondamentale il ruolo dei medici di medicina generale, e le Unità Operative Complesse di cure primarie.


Peraltro, la legge 23 prevedeva la presa in carico da parte del territorio dei pazienti con patologie croniche e si proponeva, per quanto riguarda i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta, di implementare l’associazionismo, il recupero delle professionalità ospedaliere da inserire nei Presidi Territoriali, la specialistica ambulatoriale e la nascita di poliambulatori distrettuali. Non è la legge 23 che ha fallito, ma la mancata applicazione di questa parte di quell’idea di sanità, che ha consentito alla Lombardia di essere eccellenza in Europa, non solo in Italia, per quanto riguarda l’assistenza agli acuti, gli interventi di alta complessità, la ricerca. Il perché la parte del territorio non fu sviluppata, e negli anni implementata, attiene alle polemiche politiche e quindi altra materia. A noi resta il bilancio di una pandemia che, con i malati portati nei pronto soccorso a volte in maniera non appropriata perché gestibili anche dal medico di medicina generale con cure domiciliari, è stato terribile; certamente peggiore di quanto il virus avrebbe comunque causato.

La consuetudine ha preso il sopravvento sulla programmazione. Il cittadino non si rivolge più al medico di famiglia ma si reca direttamente al pronto soccorso, senza neppure passare da chi dovrebbe detenere la prima informazione. È venuta meno la rete, abbiamo perso il controllo.

Visti i risultati drammatici raccolti nel corso dell’epidemia, nella battaglia al virus non mi pare che ci sia Regione italiana che può dare lezioni; non vedo sistemi migliori, vedo in tutti lo stesso difetto d’origine ormai diventato imperdonabile anche per l’arrivo delle nuove tecnologie che oggi ci permetterebbero di rendere il fascicolo sanitario elettronico una vera e propria cartella medica di ciascuno di noi, capace di indirizzare il cittadino lì dove ha bisogno per soddisfare le esigenze di cura. Telemedicina, riabilitazione a distanza, controlli da remoto, fanno ormai parte della realtà. Nel mondo iperconnesso, delle geolocalizzazioni, dei social che conoscono non meno di 10mila nostre preferenze e atteggiamenti, è pensabile che il nostro medico non sappia tutto di noi per rispondere ai nostri bisogni di salute?

Così come non c’è Regione che possa dare lezioni, nessuno può tirarsi indietro da responsabilità e tutti dovrebbero adesso accelerare per fornire un contributo di innovazione: ministero, e tutte le sue strutture, amministrazioni regionali, ma anche tutti i professionisti sanitari, i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta. Formare la rete assistenziale oggi grazie alla tecnologia è più facile, ma la volontà umana resta tutto. Per realizzare strutture capillari, per generare corretti alert, per programmare, dal piano pandemico alle risorse necessarie per le liste d’attesa, che la pandemia ha generato anche lì dove non c’erano. Per dare assistenza a distanza, per non lasciare soli i disabili, per le cure domiciliari.

È un aggiornamento fondamentale, per alcune regioni del nostro Paese una piccola rivoluzione, da fare subito, ora. L’uomo ha dimostrato in ogni periodo storico di sapere vincere contro le pandemie. Questa volta avremmo potuto pagare un prezzo minore. Se riaccadrà dobbiamo essere pronti. Nell’ordinarietà, l’etica ci impone di essere straordinariamente vicini alle persone più fragili.


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