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La coesione sociale è anche diritto di cittadinanza per chi nasce e cresce in Italia

Il neo Presidente del Consiglio ha parlato di coesione sociale. Ma se vogliamo essere seri dobbiamo dire che riformare la legge di acquisizione della cittadinanza, rendendola più inclusiva per le centinaia di migliaia di giovani in attesa di un riconoscimento formale di quello che già sono – italiani – è uno dei pilastri su cui dobbiamo edificare questa coesione

di Geri Ballo

Da giorni i quotidiani stilano elenchi con le tematiche più urgenti che il Governo Draghi dovrà affrontare. Fa capolino qua e là – sempre molto timidamente, casomai rischiasse di far traballare l’incantesimo che tiene unite persone e posizioni politiche così diverse – il tema della riforma della cittadinanza. La sensazione è che anche stavolta “l’Italia abbia altre urgenze e priorità”. Anzi, diciamola tutta, ora che la Lega è in maggioranza, la riforma non è nemmeno un puntino lontano nell’orizzonte.

Eppure chiedere con decisione che una riforma della cittadinanza venga discussa e votata in Parlamento è un servizio reso all’Italia tutta. E anche se nel discorso programmatico tenuto in Parlamento il Presidente del Consiglio Mario Draghi non ha menzionato questo tema, il fil rouge che lega gli interventi da lui prospettati è chiaro: sguardo lungo sul futuro e non ripiegamento su benefit elettorali momentanei; riforme di sistema analizzate e progettate in modo da ottenere risultati complessivi e non parziali, lacunosi e storpi; attenzione alle piattaforme programmatiche elaborate da quella “prossima generazione europea” a cui intestiamo il fiume di euro in arrivo in Italia e che sarebbe più cinico che mai ignorare quanto a temi posti con forza e chiarezza. Tra questi temi c’è la necessità di tornare a mettere al centro i diritti e la giustizia sociale. Una generazione cresciuta nella precarietà più destabilizzante e spesso intrappolata nell’imbuto sempre più stretto tra povertà e riscatto sociale sente sulla propria pelle che senza passare da lì non si arriva alle parole d’ordine del Primo Ministro: coesione sociale. Se vogliamo essere seri dobbiamo dire che riformare la legge di acquisizione della cittadinanza, rendendola più inclusiva per le centinaia di migliaia di giovani in attesa di un riconoscimento formale di quello che già sono – italiani – è uno dei pilastri su cui dobbiamo edificare la coesione sociale di questo Paese.

Quella della cittadinanza è una riforma necessaria innanzitutto perché è urgente sanare la condizione di diritti negati in cui vivono circa un milione di italiani, nati e/o cresciuti qui ma trattati da stranieri a ogni passo della loro vita e spinti alla marginalità dal proprio Paese. Si tratta di una riforma a costo zero, con l’enorme pregio di liberare energie preziose per l’Italia, che sicuramente contribuirebbero a migliorare il nostro Paese. Energie che oggi imbrigliamo in insensate e deleterie procedure burocratiche che costringono i giovani figli di immigrati a scelte al ribasso invece di lasciarli liberi di spiccare il volo portando beneficio all’intera collettività. Come possono farlo se la loro priorità per non venire deportati fuori dal Paese che li ha visti nascere e crescere dev’essere quella di mantenere un permesso di soggiorno legato esclusivamente al reddito? Quale persona in queste condizioni sceglierebbe ad esempio di fare impresa puntando sul proprio talento o rischiare su un progetto di lavoro innovativo mettendo a frutto la propria formazione (che in Italia paghiamo tutti attraverso le tasse, investendo quindi su ogni giovane), invece di ripiegare su lavori meno qualificati ma adatti a rinnovare il permesso di soggiorno? A scanso di equivoci, una parte lo fa lo stesso, al prezzo di enormi sacrifici, ma tanti altri non riescono a realizzarsi soprattutto per colpa delle condizioni di svantaggio in cui vengono messi e lasciati.

Su questo tema si dovrebbero misurare immediatamente forze come PD, M5S e LEU. Al momento giacciono in Commissione tre proposte di riforma per la legge sulla cittadinanza, ma finora la necessità di sofisticati equilibrismi con gli ex e attuali alleati del M5S ha impedito un confronto franco su questo tema. Ora, perché le parole dette acquistino un valore e non rimangano solo esercizio di stile, il PD non può accontentarsi di affermare che la legge 91/1992 va riformata ma deve promuovere un dibattito in Parlamento, slegato dalle dinamiche del Governo, e creare anche una rete di soggetti politici a sostegno di questa riforma.

Nel 2006, – quindici anni fa – Giuliano Amato argomentava la sua proposta di riforma della legge 91/1992 segnalando la necessità di modificarla in senso più aperto e inclusivo, sia per i nati in Italia che per chi risiede qui stabilmente, perché l’Italia del 2006, sottolineò Amato, era profondamente diversa da quella del 1992, anno in cui la legge sulla cittadinanza venne scritta. Quella proposta di riforma non è diventata realtà, come le successive, e l’Italia del 2021 è sempre più lontana da Paesi europei come Germania e Francia in termini di riconoscimento formale dei diritti di cittadinanza per i figli dei migranti. Ma il tempo di attendere pazientemente che arrivi il proprio turno di avere diritti è scaduto. Così come sta avvenendo per le donne, i diretti interessati prendono sempre di più coscienza che non è con i proclami di buona volontà di altri ma con una decisa mobilitazione in prima persona degli italiani senza diritti che si potrà arrivare a un risultato.

Chi condivide questa battaglia di diritti non li lasci – non ci lasci – soli.

*Nata in Albania, è cresciuta in Italia dall’età di 11 anni. Si è laureata in Relazioni internazionali all’Università degli Studi di Torino e ha conseguito un master in Politiche, programmi e progettazione europea. È cittadina onoraria del Comune di Lungro, in provincia di Cosenza. Ha maturato una lunga esperienza nel mondo del volontariato, dell’associazionismo sociale e culturale. Ha mosso i primi passi lavorativi nelle redazioni giornalistiche giovanili di Torino, dove ha lavorato anche in radio. In seguito si è impegnata nel mondo della diplomazia, lavorando per due mandati come primo segretario all’ambasciata d’Albania a Roma. Si è occupata della comunità albanese in Italia e più in generale di attività culturali e progetti sociali.


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