Politica & Istituzioni

Sport e parasport: possiamo permetterceli?

In Italia oggi abbiamo un ministero alla disabilità, mentre non c'è un dicastero dedicato allo sport, parte da qui la riflessione dell'autore di "Press play on sport. Esperienze di accessibilità sportiva per persone con disabilità" sul perché la pratica sportiva non sia considerata "essenziale" nel nostro Paese

di Massimiliano Rubbi

La polemica sorta dalla decisione di dedicare alla disabilità un ministero del governo Draghi si è intrecciata con quella, meno vibrante, legata al venir meno di un ministero dedicato allo sport.
È curioso che in Italia questi due dicasteri non siano mai stati presenti nello stesso governo, mentre in Canada, in un recente passato, si è ritenuto che l'abbinamento di queste due competenze fosse abbastanza impegnativo per dedicare loro un ministero ad hoc. Certo, incide su questa differenza che il primo "Ministero per lo Sport amatoriale" canadese risalga al 1961, mentre in Italia una delega ministeriale espressa sullo sport è stata attribuita per la prima volta nel 2006.

Le restrizioni adottate nelle diverse fasi della lotta alla pandemia da Covid-19 hanno tracciato un solco netto, ancorché mobile nel tempo, tra lo sport professionistico e la pratica sportiva di base. Ciò appare coerente con un'impostazione per cui, quando la compresenza fisica è necessaria, sono consentite sono le attività "essenziali", e si interpreta tale essenzialità dal punto di vista strettamente economico, in un sorprendente ricalco della distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura. Ecco allora che ogni appello a riaprire (o a tenere aperto) fa leva su fatturati mancati e posti di lavoro a rischio, e solo in subordine all'importanza in sé delle attività svolte, quasi che il rilievo sociale del teatro, dei bar e delle fabbriche di armi dipendesse esclusivamente dalla loro capacità produttiva.

In questa prospettiva lo sport di base, praticato da persone con e senza disabilità, non può che essere considerato un "di più" rispetto ad esigenze maggiormente pressanti, nell'attuale fase acuta ma anche nella "ricostruzione" che verrà, quando serrata sarà la competizione per le risorse disponibili. Quanto allo sport professionistico, ci stiamo già abituando a fruirne come spettacolo a distanza, modalità messa a rischio (di nuovo) solo dagli equilibri economici delle società, private degli introiti dal pubblico in presenza ma al contempo sollevate dall'onere di garantire l'accessibilità di curve e tribune alle persone con diversi tipi di disabilità.
E per queste ultime si può prevedere che la pratica sportiva si concentrerà sulle forme ritenute più utili, anche quando più arretrate o paternalistiche, in un'ottica di sport-terapia oppure proponendo attività motorie "addolcite", in cui gli elementi competitivi, in una visione ristretta di inclusione sociale, siano cancellati o fortemente attenuati. Sembra, insomma, completamente assente dal dibattito pubblico una vera riflessione sulla pratica e sulla fruizione dello sport da parte delle persone con disabilità e delle difficoltà che, peraltro, la pandemia ha moltiplicato per il parasport, non solo in termini di competizione paralimpica, ma anche di svago.

Nell'ottobre scorso, il ministro della Salute Roberto Speranza dichiarò "Dobbiamo puntare le nostre energie sulle cose essenziali. La priorità sono le scuole, non gli stadi". La ruvida replica di un altro Roberto, il CT della Nazionale di calcio Mancini, fu "Lo sport è un diritto di tutti esattamente come la scuola. È una parte importante della società, come l’istruzione e il lavoro". Nei mesi successivi gli stadi sono stati totalmente richiusi al pubblico, ed è legittimo il sospetto che le scuole siano rimaste aperte (quando lo sono rimaste), più che per il riconoscimento del loro ruolo educativo, per assecondare lo sforzo produttivo dei genitori.

Nei termini posti da David Graeber, la discussione sui "valori" è stata sopraffatta dalla preminenza del "valore": ma in questo la pandemia ha soltanto estenuato le stesse tendenze della normalità che la precedeva, e che una nota frase identifica come "problema" a cui non tornare. Del resto, l'homo oeconomicus, con o senza disabilità, non perde tempo a giocare, o a fare sport, per il gusto di farlo.

*autore del libro "Press play on sport. Esperienze di accessibilità sportiva per persone con disabilità", edizioni la meridiana (nell'immagine la copertina)

In apertura photo by Audi Nissen on Unsplash


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