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Workers buyout: quando i lavoratori fanno rinascere l’impresa

Crescono le storie di WBO in Italia: aziende in crisi che vengono rilanciate in forma cooperativa dagli ex dipendenti. Il caso della Screensud di Acerra, che produce reti metalliche, è un'esperienza esemplare che valorizza competenze, esperienze e permette a un territorio già martoriato dalla disoccupazione di guardare al futuro con più ottimismo

di Redazione

Dodici soci lavoratori, un fatturato per il 50% sul mercato estero, l’aumento in un anno difficile come il 2020 dell’8% di fatturato. E, per il quarto anno di seguito, la chiusura del bilancio con un utile. Un risultato importante per un'azienda che… doveva chiudere.

Quello della Screensud è un destino che sembrava segnato. Invece, quattro anni dopo, quella degli ex dipendenti della Lafer è un'esperienza a lieto fine. Non solo: è anche un'esperienza pilota di workers buy out.

Raffaele Silvestro è uno di loro. E ancora sorride quando parla della "sua" impresa, che produce reti metalliche a maglia quadra, fondamentali per l'industria mineraria.

«Non ci sono parole per descrivere una quotidianità ritrovata. La sveglia il mattino, la colazione, il lavoro». Raffaele Silvestro è felice, di «una felicità fatta di cose che pensavo di aver perso, piccole ma importanti».

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«Quando la società è andata in liquidazione nel 2012», spiega, «abbiamo deciso di non mollare e di rimettere in gioco le nostre competenze maturate in oltre quindici anni di attività».

Così Raffaele e i suoi colleghi hanno intrapreso la strada del WBO, il worker buyout, sostenuti dalla CFI (Cooperazione Finanza Impresa), Coopfond e il FondoSviluppo, i fondi mutualistici di Legacoop e Confcooperative».

Con questi finanziamenti gli operai hanno rilevato la fabbrica fallita ed è nata Screensud, una cooperativa costituita da dodici lavoratori qualificati che hanno dato il via con entusiasmo a questa nuova avventura imprenditoriali. «Le difficoltà sono state tante e grazie alla prelazione per i dipendenti ci siamo aggiudicati i macchinari all’asta», spiega Raffaele. Nessuna dispersione di competenze, esperienze, vita. «Ci rimettiamo in gioco e lo facciamo con più forza: siamo tutti nella stessa barca», spiega.

«Come mi sento? Felice e orgoglioso: felice di poter lavorare, orgoglioso di poterlo fare qui, in Campania, ad Acerra, una terra spesso dimenticata, ma che appena ne ha l’occasione sa rimboccarsi le maniche e ripartire».

«Noi, nel nostro piccolo»,, conclude Raffaele, «lo abbiamo dimostrato e quando guardo i miei compagni di viaggio – perché li chiamo così – capisco che abbiamo fatto la scelta giusta: scommettere su di noi».

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