Media, Arte, Cultura

Un anno di pandemia formato vignetta

137 artisti, tra big del disegno e illustratori in erba provenienti da 30 paesi, raccontano la pandemia a fumetti, nel libro My Covid In Comics. E ci portano in giro per il mondo, tra lessico e nuvolette

di Silvia Criara

Indossa una tuta di protezione bianca come quelle dei medici, il suo volto è di profilo, con le labbra protese in avanti. L’uomo che vediamo nella vignetta dell’artista iraniano Ali Rastroo, sta per soffiare su una particella di Coronavirus, la tiene in mano come fosse un fiore, pronto a fare volare via i suoi pappi piumosi. E a esprimere un desiderio, come si fa da bambini. Una volta spazzati via i petali del soffione, il mondo intero viene finalmente liberato dal virus e prende il posto della particella infetta.

Un racconto corale
«No, non è andato tutto bene. Dobbiamo dirlo. Come dobbiamo ammettere che questo anno non sia solo un doloroso incidente di percorso. Né una disgrazia piovuta su un mondo felice. Basterà un vaccino per riuscire a cavarsela?», si chiede il giornalista cooperante Jacopo Granci, che insieme al fumettista Claudio Calia, ha curato il libro My Covid in Comics.

«Ne usciremo solo prendendo coscienza della nostra fragilità e dei nostri errori, smettendo di lavarci la coscienza con la semplice scusa che gli altri fanno peggio», afferma Granci. Le vignette toccano tutti i temi caldi che, da un anno, bucano gli schermi e le nostre vite. Un affresco sociale, ironico, cinico, a volte radicale, per mantenere viva quest’epoca sospesa e la difficile convivenza con il virus che stiamo affrontando. Il volume – 200 pagine, 300 illustrazioni e 50 tavole – esce il 29 marzo (Caracò Editore) è stato ideato per Cefa Onlus, ong che da 48 anni aiuta le comunità a raggiungere l’autosufficienza alimentare e il rispetto dei diritti fondamentali, e con l’associazione YaBasta Caminantes, che promuove la giustizia sociale e ambientale, anche attraverso i linguaggi artistici. «Avere testimonianza di cosa è stato l’ultimo anno e di cosa tuttora è, potrà essere quel sassolino rimasto intrappolato nelle nostre scarpe per ricordarci che per uscirne, dobbiamo capire come ripartire, tutti insieme», dice Claudio Calia.

Finale aperto
Perché quando lui e Granci hanno iniziato il progetto, il libro doveva essere quello che, a un anno dall’inizio del lockdown in Italia, raccontasse la passata epidemia mondiale. Peccato che oggi ci ritroviamo ancora in una situazione simile. E quindi ci hanno rimesso mano, l’hanno ricalibrato. Ma ancora una volta, quello che pensavano sarebbe stato il capitolo finale, sui vaccini, non lo è stato.

«Il 2020 non è un anno da cancellare, ma da raccontare», scrive Jacopo Granci, «con i suoi eroismi e i suoi egoismi, con le tavole apparecchiate per uno e le inedite comunità spuntate sui balconi. Con i sorrisi immaginati, gli abbracci virtuali e con il suo pesante carico di ceneri. Nonostante le disillusioni e gli errori commessi, o forse proprio per questo, è un anno da mantenere vivo».

Tutto è relativo
«L’idea del libro è nata da un mio corso di fumetto online che ha coinvolto studenti in tutto il mondo e dal lancio, in parallelo, della challenge #MyCovidinComics a cui hanno partecipato artisti da cinque continenti, a cui abbiamo chiesto di raccontare come stessero vivendo la situazione. Ovvio che le emergenze erano relative al luogo in cui arrivava il virus», racconta Calia. La particella di Covid19 rimbalza tra le pagine e le illustrazioni, e mentre compie il giro del mondo, mette in luce come ogni situazione sia del tutto relativa. La pandemia ha accomunato spazi lontani, ma non ha cancellato le distanze sociali e le disuguaglianze economiche. Anzi, spesso le ha incrementate.

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«Durante il workshop avevo il polso della situazione nei diversi Paesi e anche dei diversi livelli di percezione da parte delle popolazioni. In Italia, la scorsa estate eravamo abbastanza sciolti, mentre in contemporanea in Brasile c’era una situazione drammatica. Avevo uno studente con la nonna ammalata nella stanza accanto», prosegue Calia, «in Iraq, essendo la popolazione molto giovane, anche a causa delle guerre, la posizione era quella di prendere il virus e sviluppare l’immunità di gregge. Perché noi possiamo lamentarci di non poter viaggiare, incollati al divano a guardare Netflix, ma in altri luoghi sei chiuso in casa senza avere acqua e corrente elettrica, magari sotto i missili, come in Libia».

Una lingua vivissima
Il fumetto, per dirla con l’artista statunitense Art Spiegelman, è «il linguaggio più simile al funzionamento della nostra memoria, che è un continuo intercalarsi di testi e immagini». Quando ricordiamo non ci vengono in mente scene cinematografiche ben girate, non abbiamo bisogno di produzioni mentali hollywoodiane o di immaginare interi fogli impaginati con il testo giustificato. «Quando vedo la gente disegnare, anche in posti più improbabili», dice Calia, «noto sempre che c’è molta più disponibilità a raccontarsi, ed è questa la potenza di un fumetto, quando sei in uno stanzone tutti insieme, disegni cose che non diresti mai a voce».


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