Welfare & Lavoro

Curare e aver cura nella malattia cronica

In una società ipercompetitiva che mette al centro l'efficienza, la perdita di funzionalità e la trasformazione della triade corpo, spazio, tempo è devastante per i pazienti cronici. Nell'ambito dell'assistenza bisogna perciò certamente affiancare al curare in senso clinico anche l’avere cura, che ha a che fare con la dimensione esistenziale degli individui. Un dovere nella fase di ristrutturazione del sistema sanitario nazionale post pandemia

di Vanna Iori

Le malattie croniche sono una delle principali cause di invalidità e morte nella moderna civiltà occidentale. In tal senso, non possiamo trascurare l’impatto che esse determinano sia sui sistemi sanitari sia nella vita delle persone e delle loro famiglie, stravolgendo la vita nella cronicità in relazione con il tempo, lo spazio e il corpo. Cambia, infatti, la percezione dello scorrere del tempo e del suo vissuto, il senso dello spazio in relazione al sentirsi a casa o in un ambiente estraneo e la relazione con il corpo-persona in una dimensione di cura che, in realtà, lo trasforma molte volte in un corpo-cosa.
Si tratta a ben vedere di elementi che hanno a che fare con l'identità dell'individuo; dimensioni che si trasformano profondamente nell'esperienza della malattia che altera funzioni e percezioni determinando cambiamenti nel concetto di sé e nella dimensione esistenziale. Una trasformazione del corpo che ha un effetto negativo sulla comprensione e la "sensazione di continuità nel tempo e nello spazio". Si tratta – come indicato da Glynis Breakwell nel suo Coping with Threatened Identities – di aspetti centrali nella definizione di un'identità stabile e di un'immagine di sé integra nonostante la malattia e i cambiamenti che essa comporta.

Da ciò deriva evidentemente una modifica non solo della funzionalità fisica ma anche di quella sociale, che è inevitabilmente connessa all'immagine del corpo, alla fiducia in esso e alla percezione che gli altri hanno di noi. In questo senso, nelle situazioni di malattia cronica, il futuro, la possibilità, il progetto, il poter essere sono sentimenti e speranze molto difficili da sperimentare e sentire. Per questo, la medicina dovrebbe concentrarsi anche sul progetto di vita e sul corpo-persona oltre che sulla cura del sintomo e sulla gestione della patologia. In una società ipercompetitiva che mette al centro l'efficienza, la perdita di funzionalità e la trasformazione della triade corpo, spazio, tempo è devastante per i pazienti cronici, con una frattura nel senso di continuità e nella relazione con le persone e gli spazi che cambiano la loro natura per come era conosciuta. Nell'ambito dell'assistenza bisogna perciò certamente affiancare al "curare", inteso in senso clinico, l’"avere cura" che ha a che fare con la dimensione esistenziale degli individui, poiché esistono malati inguaribili ma non esistono situazioni di incurabilità. Come ha scritto Eugenio Borgna, «non c'è cura se non si sa cogliere cosa ci sia in un volto, in uno sguardo, in una semplice stretta di mano, e in fondo se non si sia capaci di sentire il destino dell'altro come il nostro proprio destino».

Per questo, in una società che invecchia sempre di più e dove le patologie croniche aumentano, è indispensabile mettere in campo anche un'etica della cura che ci renda capaci di uno sguardo aperto e multidisciplinare sull'esperienza e sulle pratiche sanitarie; una sorta di "intelligenza del cuore", come ci insegnano le neuroscienze a partire da Damasio.

Nella fase di ristrutturazione del sistema sanitario nazionale post pandemia, sarà quindi indispensabile promuovere una rete che tenga insieme l'offerta sanitaria, quella socio-sanitaria e quella socio-assistenziale, coinvolgendo tutti i servizi della comunità locale, del Terzo settore, del volontariato. Oggi, bisogna mettere al centro una presa in carico continua e plurale dei pazienti che si fondi su una nuova consapevolezza del personale socio sanitario e dei professionisti. Dal to cure al to care, con l'obiettivo di restituire il senso di sé e rafforzare le identità provate dalla malattia e dalla paura, passando dall'oggettività alla soggettività, dal corpo-cosa al corpo-persona. Abbiamo l'opportunità di lavorare sia sulla visibilità che sull'invisibilità delle malattie croniche, restituendo alle persone la possibilità di modificare i loro vissuti di tempo, spazio e corpo.

*Vanna Iori, pedagogista, è capogruppo PD in Commissione Sanità del Senato.

Foto Unsplash


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