Attivismo civico & Terzo settore

Verso una legge europea sul Terzo settore

A livello di diritto dell’Unione europea manca una disciplina specifica degli enti non profit, laddove per altri enti giuridici, come le società di capitali e le società cooperative, esistono specifici regolamenti europei. È possibile ottenere oggi il risultato non conseguito negli scorsi decenni?

di Antonio Fici

Gli enti non profit sono una tipologia organizzativa diffusa in tutti i paesi europei. L’Italia, con i suoi circa 360.000 enti, non costituisce un caso isolato. Ad esempio, in Francia risultano attualmente registrate 2 milioni di associazioni; in Belgio (la cui popolazione è circa cinque volte inferiore a quella dell’Italia) v’erano 110.000 associazioni attive nel 2017; in Germania ci sono almeno 23.000 fondazioni; l’Irlanda, pur avendo meno di 5 milioni di abitanti, ha più di 33.000 enti non profit (di cui circa 10.500 charity registrate).

Le forme giuridiche più diffuse di enti non profit sono l’associazione e la fondazione, per cui esiste una disciplina specifica in tutti i paesi europei. Essa trova fonte in atti di diversa natura formale (ci sono ad esempio leggi specifiche su associazioni e fondazioni in Francia; in Germania, come in Italia, le associazioni e le fondazioni sono invece disciplinate nell’ambito del Codice civile; qualcosa di molto originale si trova in Belgio, dove è stato approvato nel 2019 il Codice delle società e delle associazioni, in cui peraltro, nonostante il titolo, trovano disciplina anche le fondazioni), e varia sostanzialmente di paese in paese, ancorché non manchino numerosi elementi in comune.

Le associazioni e le fondazioni (nonché le mutue) non sono peraltro le uniche forme giuridiche di enti non profit. Con sempre maggiore frequenza sono infatti riconosciute negli ordinamenti giuridici degli Stati Membri dell’Ue anche le società di capitali senza scopo di lucro o a lucro limitato, nonché le società cooperative senza scopo mutualistico. In Italia, ad esempio, le società a lucro limitato possono assumere la qualifica di impresa sociale, e le cooperative sociali – che sono imprese sociali di diritto – hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità. Analoghe alle cooperative sociali italiane, sono le società cooperative di interesse collettivo francesi e le cooperative accreditate come imprese sociali in Belgio.

L’area del non profit è dunque sempre più trasversale alle forme giuridiche, nel senso che potenzialmente tutte le forme giuridiche finiscono per poter assumere per legge uno scopo diverso dalla distribuzione di utili. Emblematico quanto avviene in alcuni paesi, come Germania e Irlanda, in cui la legge esplicitamente dispone che le società possono avere “qualsiasi scopo lecito”, e dunque non necessariamente lo scopo di dividere utili (come invece continua in generale a prevedere l’art. 2247 del nostro codice civile).

Oltre a ciò, l’analisi comparatistica rivela che nelle legislazioni degli Stati Membri è anche normalmente previsto e contemplato uno status di pubblica utilità a disposizione di enti senza scopo di lucro che perseguono determinate finalità ritenute dal legislatore di pubblico interesse. Esempi emblematici sono lo status di “charity” in Irlanda (disciplinato dalla nuova legge sulle charity del 2009, entrata in vigore nel 2014) e quello di ente “mit gemeinnützige Zwecke”, cioè con scopi di pubblica utilità, in Germania (ai sensi degli artt. 52 e ss. del Codice fiscale tedesco).

In alcuni paesi, poi, sono istituiti dal legislatore nuovi status di utilità sociale che vanno oltre i classici status di pubblica utilità per due ragioni principali. Innanzitutto perché acquisirli è consentito anche ad enti caratterizzati dallo svolgimento anche esclusivo di attività d’impresa. In secondo luogo perché acquisirli è consentito anche a società che entro certi limiti distribuiscono utili ai propri soci. Nell’ambito di queste categorie, pertanto, coesistono enti che hanno diversa forma giuridica (associazioni, fondazioni, società, cooperative), nonché tanto enti totalmente senza scopo di lucro quanto enti che lo sono soltanto parzialmente. Gli esempi più significativi sono lo status di ente del terzo settore recentemente introdotto dal legislatore italiano e lo status di ente dell’economia sociale e solidale previsto dalla legge francese del 2014.

La legislazione, pertanto, sembra adeguarsi all’evoluzione concettuale cui ormai da diversi anni si sta assistendo. Al settore non-profit in senso stretto si vanno sempre più sostituendo nel dibattito di economisti e sociologi settori più ampi (variamente denominati in Europa: terzo settore, economia sociale, società civile, ecc.) caratterizzati più dalle finalità di pubblica utilità in positivo perseguite dagli enti che li compongono (nonché dal possesso di altri requisiti, anche di natura organizzativa) che dalla mera assenza di finalità lucrative.

Un tentativo in questo senso molto interessante – dall’evocativo titolo “Oltre gli enti non-profit: In cerca del terzo settore” – è quello recentemente effettuato da un gruppo di studiosi nell’ambito di un progetto di ricerca sul terzo settore in Europa. (1) Lo studio si propone infatti di discutere di un più ampio “terzo settore” o “settore dell’economia sociale”, che includa non solo i “classici” enti non profit, ma più in generale tutte le organizzazioni caratterizzate da uno scopo di pubblica utilità.

Avendo compreso il loro contributo positivo all’economia e alla società, ma anche la loro prossimità agli enti non-profit più tradizionali, anche le Nazioni Unite stanno mutando il loro approccio al tema. Nel Manuale del 2018 sul conto satellite del non-profit, che costituisce un aggiornamento del precedente manuale del 2003, le Nazioni Unite fanno adesso riferimento al “third or social economy (TSE) sector”, che comprende sia le istituzioni non-profit sia altre istituzioni ad esse collegate, che non sono non-profit, ma che, come quest’ultime, servono primariamente finalità sociali o di pubblico interesse e non sono controllate dai governi. (2)

A livello di diritto dell’Unione europea manca invece una disciplina specifica degli enti non profit, laddove per altri enti giuridici – come le società di capitali e le società cooperative –esistono specifici regolamenti europei.

A partire dagli anni 90’ dello scorso secolo, sono stati fatti diversi tentativi di introdurre una disciplina europea di associazioni, fondazioni e mutue, ma tutti quanti sono falliti.

È possibile ottenere oggi il risultato non conseguito negli scorsi decenni? Si potrà finalmente avere uno statuto europeo di associazioni ed altri enti non-profit?

Premesso che i benefici di questa legislazione sarebbero enormi e di diversa natura, le difficoltà insite nel progetto non sono tuttavia da trascurare. Le differenze di disciplina tra paesi europei rimangono molto significative, e ciò, unitamente ad altri fattori, rende l’obiettivo di complessa, seppur non impossibile, realizzazione.

Alcune opzioni possono però prefigurarsi.

La prima è ritornare sull’ipotesi di introdurre forme giuridiche europee di associazione, fondazione e mutua, mediante regolamenti europei simili a quelli già utilizzati per istituire la società europea e la cooperativa europea. Si tratta però di una strategia di complessa realizzazione per le medesime ragioni che hanno condotto al fallimento i tentativi precedenti svolti negli ultimi trenta anni (innanzitutto il fatto che sarebbe necessaria l’unanimità dei consensi degli Stati Membri).

La seconda consiste nel far ricorso al meccanismo della cooperazione rafforzata di cui all’art. 20 del Trattato sull’Unione europea, soprattutto al fine di bypassare l’unanimità dei consensi.. (3)

La terza consiste nell’istituire per direttiva lo status giuridico di “ente europeo del terzo settore”: una sorta di marchio a rilevanza transfrontaliera, acquisibile in ciascuno stato membro da tutti gli enti che posseggano i requisiti minimi individuati nella normativa stessa.

Questa strategia – teorizzata per la prima volta da chi scrive in un precedente studio sull’impresa sociale (4) ed accolta dal Parlamento europeo in una Risoluzione del 2018 – avrebbe il vantaggio di risolvere numerose questioni poste dall’attuale mancanza di una disciplina europea ad hoc, senza la necessità di dover superare tutte le difficoltà che una legislazione puntuale basata sulle forme giuridiche dovrebbe affrontare e risolvere. Lo status europeo sarebbe infatti fondato sul possesso di alcuni requisiti essenziali, mentre per il resto l’ente sarebbe governato dal diritto nazionale competente per territorio. Gli enti muniti della qualifica sarebbero riconosciuti da tutti gli stati membri, i quali sarebbero tenuti a garantire loro una disciplina analoga agli enti di diritto nazionale in possesso del medesimo status. Ciò varrebbe anche sul fronte fiscale. Ad esempio, se un ente nazionale in possesso della qualifica di “ente europeo del terzo settore” ha la possibilità di ricevere donazioni fiscalmente agevolate (per intenderci, come quelle di cui all’art. 83 del nostro Codice del terzo settore), anche un ente straniero in possesso della medesima qualifica dovrà esserlo, in maniera automatica e senza bisogno di superare alcun test di comparabilità o compatibilità, anche se la qualifica è stata acquisita in un altro paese dell’Unione europea.

Quanto ai requisiti dello status di “ente europeo del terzo settore”, traendo spunto dalle leggi nazionali vigenti in materia, essi potrebbero essere:

1) la natura di ente privato (né pubblico né controllato da enti pubblici), indipendentemente dalla forma giuridica di costituzione (associazione, fondazione, società, ecc.);

2) il perseguimento esclusivo di fini di pubblica utilità (o di utilità sociale);

3) l’obbligo di usare le risorse, inclusi utili annuali ed avanzi di gestione, per l’esclusivo perseguimento delle finalità di pubblica utilità, dovendo tuttavia ritenersi ammessa entro precisi limiti la remunerazione del capitale conferito dai soci (negli enti che hanno la forma di società di capitali);

4) l’obbligo di rispettare alcuni oneri organizzativi e di trasparenza, necessari al fine di assicurare la necessaria coerenza tra azione e finalità;

5) l’iscrizione in pubblici registri, necessaria a fini di conoscenza del possesso dello status, specie in paesi diversi da quello di costituzione, e del successivo controllo pubblico;

6) la sottoposizione a controlli pubblici volti ad accertare il possesso dei requisiti per l’acquisizione e il mantenimento dello status.

Note

1) Cfr. SALAMON L.M., SOKOLOWSKI W., Beyond Nonprofits: In Search of the Third Sector, in ENJOLRAS B. ET AL.(eds.), The Third Sector As A Renewable Resource for Europe. Concepts, Impacts, Challenges and Opportunities, Palgrave Macmillan, 2018, p. 7 ff.

2) Cfr. UNITED NATIONS, Satellite Account on Non-profit and Related Institutions and Volunteer Work, New York, 2018.

3) Cfr. BREEN O.B., Enlarging the Space for European Philanthropy, A Dafne/EFC commissioned study, 16 January 2018.

4) Cfr. FICI A., A European Statute for Social and Solidarity-Based Enterprise, European Union, Brussels, 2017.


* Professore nell’Università del Molise e Direttore scientifico di Terzjus – Osservatorio di Diritto del Terzo settore, della filantropia e dell’impresa sociale.

Lo scritto costituisce una brevi sintesi in italiano di un più ampio studio redatto dall’autore su incarico del Parlamento europeo, in cui è attualmente in discussione un’iniziativa legislativa in materia di enti non-profit. Lo studio completo, in lingua inglese, è reperibile qui.


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