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Politica & Istituzioni

La politica non è qualcosa da cui tenersi lontano, anzi

Il segretario generale di ActionAid interviene nel dibattito lanciato da Giuliano Amato. Le organizzazioni civiche debbono provare a scardinare il “sistema” per cui la politica appare agli attivisti e volontari cosa da cui tenersi lontano. Siamo noi a dover dire con forza che la politica si fa con spirito di servizio, spendendo per provarlo, la credibilità delle nostre organizzazioni. Per converso, il sistema dei partiti non si può più permettere di restare fermo all’estrazione delle figurine utili al momento delle elezioni.

di Marco De Ponte

Credo che per contribuire al dibattito provocato dalle riflessioni di Giuliano Amato, sia utile ricordare brevemente che – se non nell’ultimo anno durante il quale il Covid ha dominato tutto e le organizzazioni civiche si sono rese visibili anche ai nostri concittadini recuperando grande credibilità – nei 2-3 anni precedenti esse hanno subito attacchi senza precedenti da leader politici molto in vista. “ONG” – da acronimo sconosciuto – è diventato nel giro di pochi mesi, per molti, sinonimo di sospetto, di collusione e di mai dimostrate scorciatoie verso fenomeni di arricchimento indebito di dipendenti, leaders e attivisti di organizzazioni del cosiddetto terzo settore.

Chi ha coniato espressioni come “taxi del mare”, data la scarsa comprensione del processo democratico sostanziale e la spiccata inclinazione a dichiarazioni funzionali alla propria parte politica pratica sui territori, non si è nemmeno reso conto del danno che ha provocato in quegli anni. Forse più consapevole e deliberata è stata invece la continua ricerca di un nemico (tra cui “le ONG”) da cui ebbi occasione di mettere in guardia evidenziando il pericolo di un tale atteggiamento per la qualità stessa della democrazia, già nel 2018. Da questo contesto forse ora in Italia stiamo emergendo lentamente, ma sono dinamiche che abbiamo visto moltiplicarsi nel mondo intero, quando specifici provvedimenti restrittivi trovano legittimazione prima di tutto in una narrazione pubblica prevalente che rappresenta gli attori civici non come risorsa, ma come scocciatura o intralcio destabilizzante da parte di chi detiene il potere attraverso le istituzioni.

Se la ricerca del dialogo diretto con il “proprio” popolo è divenuta una caratteristica di tante leadership politiche, c’è da domandarsi a chi, in fin dei conti, risulti possibile percorrere quella scorciatoia per l’accesso ad un potere pensato come controllo invece che come responsabilità e servizio. La risposta che invariabilmente mi trovo a dare a questa domanda si incrocia con l’osservazione di come le democrazie parlamentari si siano tramutate spesso in plutocrazie; questo non solo perché il leader più esposto ormai sempre più spesso è un miliardario o viene sostenuto da grandi interessi economici (Trump, prima Berlusconi, i Bush, ma anche Macron, i Clinton ecc…), ma anche perché molto più semplicemente, a livelli molto più “bassi” o localmente, chi è impegnato a cercare di sopravvivere, non trova spazio per dedicare tempo alla ricerca di un bene comune attraverso le istituzioni. Io stesso, privilegiato lavoratore salariato, non potrei mai occuparmi a tempo pieno di una constituency diversa da quella per la quale svolgo un ruolo professionale, per il semplice fatto che dovrei dedicare quel tempo a portare a casa uno stipendio, comunque, non potendone fare a meno. Figuriamoci chi vive in maniera sistematica una esclusione dal mondo del lavoro.

Sempre meno “a Roma” ci va Peppone, rappresentante radicato in un territorio, e sempre più spesso gli elettori di un territorio vengono strumentalizzati per legittimare il potere di chi meglio riesce a parlare alla pancia dei destinatari di comunicazione pubblica.

Come diceva in questi giorni Bobba, la “ragionevole distanza” tra organizzazioni civiche ed i partiti, si è andata amplificando perché la diffidenza delle prime è cresciuta alla luce dell’uso che i secondi si sono trovati a fare del terzo settore, reso spesso strumento esecutivo (anche con colpa dei propri leader) o, al massimo, serbatoio di rappresentanti buoni per le elezioni (le “figurine” da esibire al momento della conta elettorale).

Con Actionid, da lungo tempo sostengo che il ruolo delle organizzazioni civiche è – in fondo, se davvero hanno ambizioni trasformative – quello di fare in modo che le persone non si sentano solamente contate alle tornate elettorali, ma sentano di contare nella formazione di un comune sentire, il quale poi di conseguenza possa essere trasformato in norme e politiche da persone che davvero rappresentano istanze reali di una comunità.

Non credo dunque che le organizzazioni civiche debbano ambire a proiettare i propri leaders in ruoli di rappresentanza (anzi il non ambire alla rappresentanza in maniera diretta risulta garanzia di una attenzione al bene comune della comunità, non di una parte di essa); tuttavia sono assolutamente certo che oggi siano proprio le leadership delle organizzazioni civiche che debbono provare a scardinare il “sistema” per cui la politica appare agli attivisti e volontari cosa da cui tenersi lontano. Siamo noi a dover dire con forza che la politica si fa con spirito di servizio, spendendo per provarlo, la credibilità delle nostre organizzazioni. Per converso, il sistema dei partiti non si può più permettere di restare fermo all’estrazione delle figurine utili al momento delle elezioni.

Sta a chi tra noi ha la possibilità di esercitare un ruolo da leader civico, il far crescere in seno alle nostre basi sociali l’amore, invece che il disprezzo, per l’impegno politico. Sta a noi affrontare il complesso di inferiorità di potere e di superiorità di valori che tiene davvero distante politica e vita associativa. Non dobbiamo avere paura di una contaminazione. Contaminazione di cosa? Se non ci piacciono le pratiche dei partiti ma ne riconosciamo il ruolo, dobbiamo pretendere dalle forze politiche un rapporto centrato sui contenuti, non sulla cooptazione (quando va bene) in processi dal discutibile impatto decisionale (del quale molti leader del terzo settore stesso si accontentano).

Iniziative come quelle già citate in questo dibattito da Elena Ostanel, quali Candido, vanno nella giusta direzione, ma prima ancora e con continuità credo dobbiamo fare uno sforzo per dare nella narrazione pubblica dignità all’impegno di rappresentare le proprie constituencies. Uno sforzo in parte riuscito negli Stati Uniti ed altrove, che può riuscire anche in Italia soprattutto se troveremo il modo di far sì che, oltre alla faccia, le parti di popolo maggiormente escluse, ci mettano tanto la rabbia quanto i soldi (come sempre avvenuto nei cambiamenti, attraverso moti di resistenza, impegno sindacale e così via).

Giuliano Amato si domanda che cosa sia la politica se non community organizing. In fondo ha ragione, questo dovrebbero fare tutti gli attori del terzo settore, senza timore di chiamare un tale impegno con il proprio nome: politica.

Partire dalle istanze reali per puntare al bene comune significa anche rivedere l’interpretazione dell’art 49 della Costituzione e dare valore pieno al 118. Ma per farlo prima di tutto serve che lavoriamo a una comunicazione forte del valore dell’impegno politico. La strada non è breve e non basta che passi per alcuni leader di pensiero; serve piuttosto che questo pensiero si faccia strada in primis nelle basi associative del terzo settore più libero e radicale.

*Segretario Generale di ActionAid

Nella foto il logo del Festival della partecipazione ideato da organizzazioni civiche tra cui ActionAid


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