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Giustizia riparativa: la voce delle vittime del terrorismo

Seconda puntata del nostro viaggio nelle esperienze in essere in Italia. Parlano Manlio Milani, il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di piazza della Loggia e Giorgio Bazzega figlio del maresciallo dell’antiterrorismo Sergio Bazzega, ucciso dal brigatista Walter Alasia

di Luca Cereda

L’obiettivo di questo reportage sulla giustizia riparativa non è quello di descrivere i numeri dei suoi percorsi dentro e fuori le carceri italiane. Come detto nel primo capitolo, questo numero non lo ha né il Ministero della Giustizia, né il Dap, il dipartimento di amministrazione penitenziaria. La giustizia riparativa, portata avanti in modo informale e non sistematico, da anni affronta la complessità dell’evento “reato” in tutte le sue molteplici implicazioni: psicologiche, sociologiche, emotive. E in tutte le sue componenti: il reo, la vittima e la società. Implicazioni che riguardano tutti i soggetti coinvolti sia antecedentemente, sia durante, sia successivamente all’agire criminoso.

Ma è possibile rimettere in contatto i pezzi lacerati da un atto terroristico neofascista o di estrema sinistra. È possibile farlo dopo il boato e i corpi dilaniati come accaduto il 28 maggio del 1974 a Piazza della Loggia a Brescia (foto), in cui persero la vita 8 persone e altre 102 furono ferite?

A dimostrare che questo percorso è possibile è Manlio Milani, marito di Livia Bottardi, una delle vittime della strage e presidente dell’associazione dei familiari delle vittime: «Dobbiamo partire, è questo che facciamo nei percorsi riparativi che proponiamo, dalla necessità di eliminare le categorie che separano chi sta fuori da chi sta dentro al carcere, le vittime dai rei: non ci possono i totalmente buoni da una parte e gli assolutamente cattivi dall’altra, i mostri».

La voce che resta viva delle vittime del terrorismo
Erano le 10 in piazza della Loggia ed era prevista una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. Migliaia di persone erano scese in piazza a manifestare. Alle 10.12 una bomba contenente almeno un chilogrammo di esplosivo, nascosta in un cestino dei rifiuti, esplose colpendo moltissime persone: tre di queste morirono sul colpo. Una di queste fu Livia.

«Quella mattina noi, io e lei, andiamo in piazza, cerchiamo i nostri amici, li individuiamo, erano vicino a quella colonna e quindi a quel cestino. Mentre ci stiamo avviando da loro io vengo bloccato da un amico che mi chiede alcune cose. Quando sarò stato a 4 o 5 metri, forse anche meno, da loro, da questo gruppo di amici che avevo lasciato la sera prima, alzo gli occhi, incontro quelli di Livia, ci salutiamo: in quel momento lo scoppio», ricorda Milani.

Quella violenza ha rotto immediatamente qualsiasi tipo di rapporto di vicinanza. «Da un momento all’altro tu ti sei trovato completamente deprivato della possibilità di avere la fianco la tua compagna di vita. Questa è una lacerazione che per me è insopportabile, quasi una sorta di senso di colpa perché ti porta a dire: “avrei potuto proteggerti un po’ di più”», continua Manlio Milani.

I terroristi: mostri o persone?
«C’è un filmato del giorno dei funerali – ricorda il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime –, dove io continuo a picchiarmi un pugno in testa e continuo a dirmi quanto fosse tutto assurdo quello che stavo vedendo. E quando ho visto il giorno del processo che gli imputati, e guardandoli avevano 17-18 anni, io dicevo “come hanno fatto questi qui per poter fare questa cosa? Davvero loro sono l’espressione del fatto»?

Ecco allora che inizia a farsi largo nel cuore e nella mente di Milani e altre vittime di una tragedia che non è mai stata solo privata, ma sempre anche pubblica, di Stato. «Avviando percorsi riparativi con detenuti per reati di terrorismo, ma anche per reati ordinari, mi sono sempre reso conto di come un reato sia innanzitutto lo specchio di un qualche disagio che c’è nella società. E non è un caso che molti di loro mi abbiano detto: finalmente sono stato arrestato, perché in carcere ho la possibilità di rendermi conto di ciò che ho fatto e quindi di una possibilità di fermarmi, perché all’esterno non ero più capace di tornare indietro».

È possibile riparare gli strappi – personali e collettivi – delle stragi del terrorismo?
Lo sforzo che Manlio Milani propone, alle vittime di un reato drammatico come una strage terroristica, così come a tutte le vittime è di unire le forze con la società civile «per recuperare l’umanità sofferente in carcere. Non dobbiamo lasciarli isolati, creargli attorno una sorta di cordone sanitario. Dobbiamo provare a incontrarli in percorsi riparativi, ad adesione volontaria da parte di tutte le componenti della pratica, per poter fare in modo che essi da un lato cerchino di recuperarsi ad una nuova vita, e dall’altro lato trovino la possibilità di sopportare fino in fondo, pur vivendo quella colpa, il peso che non è una espiazione così, è semplicemente riconoscere la responsabilità di ciò che hanno prodotto», testimonia Milani. Che aggiunge: «Ai detenuti va ridata fiducia, perché possano riconoscere il male fatto anche attraverso il dialogo diretto con la vittima. Anche la vittima, quando comprende che il reo ha preso consapevolezza del male, della lacerazione, si rende conto di non aver a che fare con un mostro ma con una persona».

Guardare il reato con altri occhi
Giorgio Bazzega è figlio del maresciallo dell’antiterrorismo Sergio Bazzega, ucciso dal brigatista Walter Alasia il 15 dicembre del ‘76. «Per anni ho scelto di riempire quel dolore con la droga per alleggerire l’anima dalla vendetta che covavo. Ma i semi piantati da mio padre – rivela Bazzega – ad un certo punto sono affiorati». Il motivo dell’odio e della rabbia che aveva dentro era il suo essere una vittima: «Quando sei vittima il dolore ti porta a cortocirciuti strani: volermi vendicare della morte di mio padre per onorarlo era il contrario dei valori che lui mi aveva tramesso e che incarnava». L’incontro con Manlio Milani e i percorsi riparativi che proponeva a vittime di reati di terrorismo è stato lo snodo che ha consentito a Bazzega di guardarsi dentro: «Mi ha cambiato la vita perché mi ha permesso di mutare il mio punto di vista: la vittima non dev’essere passiva e in attesa di essere considerata o commiserata. La vittima diventa parte attiva nel processo di avvicinamento dei lembi dilaniati dal dolore e dalla sofferenza dello strappo iniziale, violento».

Per 10 anni Giorgio ha intrapreso un percorso di giustizia riparativa con un gruppo di vittime del terrorismo e con ex-esponenti della lotta armata. «In questo percorso i rei accettavano sulle loro spalle la tua rabbia e la tua sofferenza perché i dolori sono trasversali. Lo strappo però divora tutti, me come figlio di una vittima, ma si prende anche i figli e le figlie dei rei. Questo mi ha fatto capire che chiedere la “morte civile” per i fatti commessi, anche dopo lo sconto della pena, significa fare qualcosa di incostituzionale, che non ricuce lo strappo, ma lo trascina e se possibile lo aumenta».

La giustizia riparativa come recupero
«Colui che viene condannato viene visto esclusivamente attraverso gli occhi della legge. Viene considerato colui che ha commesso il reato. Ma chi è questa persona? Come mai ha commesso violenza, di qualsiasi tipo, contro qualcuno e contro la comunità? Abbiamo bisogno anche di rispondere a queste domande. Non dobbiamo dimenticare mai che il reo è una persona e non un mostro», spiega ancora Manlio Milani. Per questo i percorsi di giustizia riparativa sono diretti a tutte le parti coinvolte – vittima, reo, società civile – anche in un terribile omicidio o strage del terrorismo, e la direzione che dovrebbe essere intrapresa per recuperare l’umanità sofferente che affolla le carceri, la indica proprio Milani: «Non dobbiamo lasciare i detenuti isolati. Dobbiamo poter fare in modo da un lato cerchino di recuperarsi ad una nuova vita, e dall’altro lato trovino la possibilità di sopportare fino in fondo, pur vivendo quella colpa, il peso delle loro azioni. Che così non è un’espiazione, è semplicemente riconoscere la responsabilità di ciò che hanno prodotto».


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