Media, Arte, Cultura

Chi salverà il mondo? Degli artisti disperati, squattrinati e fragili

Daniele De Michele, in arte DonPasta, è un performer e musicista italiano. Come tutti coloro che vivono di cultura è stato travolto dal Covid. E a quel punto si è trovato a chiedersi che senso aveva il suo essere artista oggi. Per darsi la risposta ha girato Naviganti, un docufilm che racconta la vita in pandemia di quattro artisti, che sarà presentato a Venezia fuori concorso alla Mostra del Cinema

di Lorenzo Maria Alvaro

Il suo lavoro si è aggiudicato il bando "Social Film Production Con il Sud", l'iniziativa ideata e promossa dalla Fondazione Con il Sud e dalla Fondazione Apulia Film Commission. Ne è nato un documentario underground, libero e spericolato, che ha anche conquistato Venezia 78, la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. «Gli esseri umani vanno in difficoltà nelle tragedie, figurarsi in una pandemia mondiale. Il clown nelle tragedie ci sguazza, tanto più in una pandemia. È un film su degli artisti con un evidente senso di inutilità, che provavano a farcela. Non solo per loro, perché l’artista non farebbe questo mestiere, ma per tutti», sottolinea Daniele De Michele, in arte DonPasta, regista del film. L'intervista


Ha firmato la regia del docufilm Naviganti, fuori concorso a Venezia. Di cosa si tratta?
Tutto è nato da una domanda che mi sono posto: ma io a che servo? Per rispondere ho fatto un film

Andiamo con ordine. Nella vita fa il regista?
No, il documentarista è un lavoro che ho affrontato solo recentemente. Sono sempre stato un performer. In particolare faccio spettacoli in cui metto musica e cucino. Unisco la cucina delle nonne a canzoni e racconti popolari. Un percorso che si è interrotto bruscamente con il Covid.

È lì che si è fatto la fatidica domanda?
Esatto. Mi sono ritrovato sul divano di casa davanti alla tv senza avere più un lavoro. Costantemente sentivo parlare di lavori indispensabili e l'unico elemento, lavoro, che non è mai stato ritenuto tale, ancora oggi, è quello culturale. Siamo l'unico comparto letteralmente scomparso dalle priorità. Una consapevolezza per me drammatica che mi ha portato a chiedermi il senso di quello che faccio. Al di là del tema economico. Iniziai a chiamare compulsivamente via zoom persone a me care, per sapere come stessero affrontando questo momento sconvolgente, e a fare decine di interviste via zoom: a sociologi, ambientalisti, medici, insegnanti, artisti. Ho decine di ore di un archivio che ho chiamato Anticorpi, in cui provavo a vedere delle luci in fondo al tunnel. Chiamai Gino Strada, Nadia Urbinati, Marco Revelli, Domenico De Masi per fargli prevedere il futuro. Ma niente, erano ovviamente presi alla sprovvista anche loro, con un misto di speranza e catastrofismo.

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Alcune immagini del documentario

Si è dato una risposta?
Ho provato a darmela con questo lavoro. Non so se oggi ho davvero una risposta. Io so che tutte le epoche storiche drammatiche hanno visto l'arte come strumento di reazione e comprensione. A quanto pare evidentemente oggi invece il mondo può e vuole fare a meno dell'arte. Quello che ho scoperto è che invece noi artisti no.

Come si passa dal divano e dalla disoccupazione alla produzione di un documentario?
Una volta che mi è nata l'idea ho cominciato ad usare le mie risorse per provare a produrlo. Quindi mi sono fatto prestare del denaro, ho chiuso accordi con le maestranze chiarendo le ristrettezze economiche e la difficoltà di pagare velocemente. Poi ho visto il bando ideato e promosso dalla Fondazione Con il Sud e dalla Fondazione Apulia Film Commission, “Social Film Production Con il Sud” è una iniziativa unica nel suo genere che promuove la collaborazione attiva tra società di produzioni cinematografiche e organizzazioni del terzo settore meridionale per raccontare il sud Italia attraverso i suoi fenomeni sociali. Mi sono aggiudicato 32.700 euro. La cifra mi ha permesso più o meno di andare in pareggio.

Di cosa parla il progetto?
Racconto la storia di tre personaggi oltre a me: il musicista e compositore napoletano Daniele Sepe, la scenografa e illustratrice di Castiglione d'Adda, Giulia Bonaldi e infine il contadino, poeta e filosofo di Benevento, Modesto Silvestri. Tutti cari amici. L'idea era raccontare come tutti questi artisti vivevano il Covid e questa nuova drammatica situazione. Lo schema narrativo è molto tradizionale e suddiviso in tre fasi storiche: il lockdown, il prolungamento del lockdown, la riapertura e il ritorno alla chiusura. Faccio vedere come vivevano, lo stato d'animo, le fragilità economiche e psicologiche e come hanno reagito. Il film si conclude con l'arrivo dell'estate e con la consapevolezza che gli artisti erano fregati definitivamente. Cosa che per altro è vera ancora oggi. Il tutto è inframezzato dallle considerazioni del sociologo Marco Revelli che tesse una riflessione su Covid, capitalismo, arte e lavoro, intervistato dalla giornalista Giustina Terenzi, di Controradio

Un'opera d'arte per raccontare la crisi dell'arte?
Sicuramente. Ma in realtà di come i capisaldi di una società sono andati in crisi e cosa succede ad una società che si priva di questi capisaldi. Penso all'arte ma anche alla salute e alla scuola. Nessun discorso vittimistico, sia chiaro. Una semplice constatazione.

Eppure, come diceva, l'artista non può fare a meno di lavorare…
È forse proprio questa la cosa più curiosa: gli artisti trovano il modo di esprimersi nonostante tutto. Non è una scelta ma un bisogno. Siamo ossessionati dalle nostre visioni. Questo dà speranza: la speranza che una visione poetica prima o poi, seminata, dia frutto, tocchi le persone.

Il primo germoglio è la partecipazione alla 78ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia?
Non è la prima volta che partecipo a Venezia. Ero già stato selezionato con un altro lavoro che si chiamava I Villani. La cosa sorprendente è che sia stato selezionato Naviganti, che è un lavoro profondamente underground, ha una debolezza che è la sua forza. Non era possibile scriverlo in anticipo. Si scriveva mentre le cose accadevano al mondo e alla gente. Ho seguito i protagonisti per un anno e mezzo, per capire come sarebbe cambiato il mondo e come, di conseguenza, le loro vite. In più ha goduto di un budget cinque volte più basso del lavoro precedente. È una cosa molto bella che sia stato valorizzato un lavoro fatto con un processo creativo così anomalo, con un linguaggio ibrido e poco ortodosso, molte parti sono girate su zoom. Questo mi rende felice perché è bello sapere che c'è ancora voglia di proposte libere e spericolate.


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