Leggi & Norme

Se l’occhio del Terzo settore entra nel Palazzo

Così le non profit usano la versione italiana del Freedom of information Act, il decreto legislativo 97, sulla trasparenza della Pubblica Amministrazione

di Francesco Dente

Il nome ufficiale è “accesso civico generalizzato”. Ma per tutti, dai giornalisti ai privati cittadini, è semplicemente il Foia. Meglio, la versione italiana del Freedom of information Act, la storica legge statunitense che da metà anni 60 ha reso più trasparente la democrazia a stelle e strisce.

Un traguardo che l’Italia ha raggiunto mezzo secolo dopo. Solo nel 2016 il decreto legislativo 97 ha stabilito finalmente che chiunque può chiedere atti e dati alla pubblica amministrazione senza dover più dimostrare (come avviene invece per il cosiddetto “accesso documentale” garantito dalla legge 241 del 1990) un interesse diretto a ottenere una specifica informazione. «È uno strumento semplice da utilizzare: non richiede alcuna motivazione, l’istanza è gratuita e si può presentare online», spiega l’avvocatessa Emanuela Furiosi, docente di diritto amministrativo alla Statale di Milano. Ha soltanto due limiti: assoluti, nel caso in cui confligga con il segreto di Stato; relativi, quando ad esempio il diritto all’accesso contrasta con interessi come la sicurezza nazionale o le relazioni internazionali. In tal caso il bilanciamento è effettuato dalla pubblica amministrazione o, in seconda battuta, dalla magistratura.

Uno strumento prezioso che il Terzo settore non ha esitato a impugnare per far luce sui dossier più delicati. Pensiamo ai temi caldi legati all’immigrazione, dagli accordi con la Libia alla gestione del sistema di accoglienza straordinaria. Fascicoli che sulla carta sono a disposizione di tutti ma che, chissà perché, talvolta faticano a venire fuori dai cassetti.

Vita ha dato uno sguardo ai registri dei ministeri dell’accesso civico generalizzato. Elenchi con le richieste presentate e l’esito ottenuto che le amministrazioni tardano a istituire: l’Istruzione lo ha fatto a luglio scorso mentre la pagina web del Viminale è ancora in costruzione. Peraltro, solo alcuni dicasteri indicano la natura del richiedente, ad esempio legale o privato cittadino, e meno ancora precisano il nome dell’organizzazione non profit. Ebbene nel 2020, il ministero che in valore assoluto ha ricevuto più domande dal Terzo settore è quello della Cultura (22) seguito da Esteri e Sviluppo economico (entrambi 12). L’Ambiente invece è il ministero che ha raccolto in percentuale più domande di accesso dalle compagini del sociale: quasi il 53% (10 su 19), seguito dalla Cultura con il 30% (22 su 73). In generale, il giudizio sul Foia delle organizzazioni contattate è positivo. I referenti del non profit, a tal proposito, suggeriscono alle organizzazioni del Terzo settore che si approcciano al Foia di: evitare le richieste massive di atti, individuare con precisione il documento che si vuol chiedere, seguire con attenzione gli sviluppi della pratica in caso di diniego. «Talvolta in passato le amministrazioni opponevano delle difficoltà per quanto concerne l’ampiezza della qualifica di “informazione ambientale”. Il Foia invece ha spianato la strada», osserva Stefano Deliperi, presidente dell’associazione ecologista Gruppo di intervento giuridico.

L’applicazione del principio sta riservando però non poche delusioni. «All’inizio c’era maggiore apertura della pubblica amministrazione. Spesso ora si trincera dietro l’impossibilità di dire qual è il rischio concreto per cui nega l’accesso agli atti. È come se dicesse: non ti posso dire qual è il rischio perché altrimenti violerei la segretezza delle relazioni internazionali. Ma è una motivazione apparente. Andrebbero definiti meglio i limiti che può opporre», suggerisce l’avvocatessa Giulia Crescini dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Una tendenza confermata da un recente monitoraggio proprio sui ministeri del Centro di competenza Foia da cui risulta un calo delle richieste “interamente accolte” dal 64% del 2017 al 53% del 2020. «Molte volte, nel nostro caso, le amministrazioni non rispondono entro i trenta giorni previsti. Durante il Covid, abbiamo dovuto rivolgerci al Tar per rompere il silenzio di tre Regioni sulla campagna vaccinale. È una sconfitta. La vittoria sarebbe stata avere le informazioni senza dover ricorrere ai tribunali», rincara la dose Isabella Mori, vicepresidente di Cittadinanzattiva. L’epidemia ha evidenziato un altro punto debole. «I trenta giorni per rispondere sono un termine ragionevole. Tuttavia, se lo si colloca nel contesto dell’emergenza sanitaria e si considera la rilevanza dell’attualità dei dati in tale contesto, sono un lasso di tempo estremamente ampio», fa notare Furiosi. L’Asgi poi lamenta anche la diffusa resistenza a concedere l’accesso parziale agli atti. «È raro che tutto il documento vada a pregiudicare gli interessi dello Stato», sottolinea Crescini. Ultima criticità, la difficoltà di individuare chi detiene le informazioni, specie quando sono spezzettate fra più enti. «Servirebbe un referente che raccogliesse le richieste per le varie tipologie di accesso: documentale, civico semplice, generalizzato», propone Mori. Servirebbe, insomma, uno sportello unico del Foia.


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