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La legge sul lobbying vicina al traguardo ma Confindustria e sindacati si nascondono

Il paradosso è che le stesse associazioni imprenditoriali e i principali sindacati italiani sono regolarmente iscritti al Registro della trasparenza delle istituzioni europee, attraverso il quale possono chiedere incontri agli europarlamentari e agli alti dirigenti della Commissione. Ad esempio, in Europa Confindustria ha all’attivo ben 77 incontri con i Commissari o alti dirigenti responsabili di vari dossier. La CISL ha invece dichiarato di spendere 400.000 euro in attività di lobbying a Bruxelles con 3 soli incontri con le istituzioni europee

di Federico Anghelé

Continuiamo a sperare che questa sia la volta buona. E che ce la si possa fare. Dopo quasi 50 anni di tentativi, decine di proposte di legge fallite, la legge sul lobbying sembra a un passo dal traguardo: dopo una lunga, travagliata gestazione, la Commissione affari costituzionali della Camera si è accordata su un testo base ed è in attesa che il governo si esprima sulle proposte emendative. Nella migliore delle ipotesi, si dovrebbe discutere in Aula il 22 novembre.

Nel frattempo, però, vanno disinnescati gli emendamenti più esplosivi, in particolare quello che favorirebbe Confindustria e i sindacati, escludendole di fatto da ogni obbligo di rendicontazione.

Una efficace normativa sul lobbying, infatti, prevede che qualsiasi soggetto – in rappresentanza di interessi economici, professionali, sociali – intenda portare il proprio punto di vista al decisore pubblico, debba iscriversi a un apposito registro, debitamente aggiornato e sul quale compaiano i temi discussi, i decisori pubblici incontrati, le risorse a disposizione per svolgere l’attività di lobbying. A questi standard minimi, previsti dalle normative delle istituzioni europee e di Paesi come la Francia, l’Irlanda, la Scozia, devono sottostare anche i sindacati e le associazioni imprenditoriali locali, che concorrono come le Ong, le aziende, le società di consulenza, gli studi legali, il terzo settore, a influenzare le politiche pubbliche.

Il paradosso è che le stesse associazioni imprenditoriali e i principali sindacati italiani sono regolarmente iscritti al Registro della trasparenza delle istituzioni europee, attraverso il quale possono chiedere incontri agli europarlamentari e agli alti dirigenti della Commissione. Ad esempio, in Europa Confindustria ha all’attivo ben 77 incontri con i Commissari o alti dirigenti responsabili di vari dossier e europarlamentari (dati disponibili grazie all’Integrity Watch di Transparency International), spendendo quasi 1 milione di euro in attività di lobbying (il doppio dei cugini francesi del Mouvement des Entreprises de France che dichiarano 500.000 euro in lobbying con 28 incontri registrati). La CISL ha invece dichiarato di spendere 400.000 euro in attività di lobbying a Bruxelles con 3 soli incontri con le istituzioni europee. Confindustria in Europa si è occupata di tassazione, concorrenza, ambiente, cultura, diritti dei consumatori; la Cisl di commercio, azione climatica, pesca, sicurezza alimentare. Siamo proprio sicuri che in Italia potremmo mettere da parte la trasparenza su dossier così cruciali, che riguardano la vita di ciascuno di noi e per i quali le Ong, le aziende, le società di lobbying saranno invece chiamate a render conto?

Forse dovremmo smettere di chiamarla legge sul lobbying: benché si tratti di un’attività non solo legittima, ma anche necessaria, perché può contribuire a informare il parlamentare o l’alto funzionario ministeriale con dati, punti di vista indispensabili a capire l’impatto che una certa scelta potrebbe avere su un comparto economico, o su un segmento della popolazione, ha ancora una connotazione “sulfurea”. Da una parte il termine lobby è ancora troppo spesso associato a corruzione, favoritismi, conservazione dello status quo. Gran parte dei gruppi di pressione evitano di chiamarsi lobby e si scrollano di dosso il rischio di venir identificati con i difensori di interessi particolari.

Dall’altra, c’è una gran confusione riguardo agli interessi stessi: che siano “generali” o “particolari”, hanno egualmente diritto a rappresentarsi al legislatore. Tanto il punto di vista di un grande produttore di automobili quanto quello di un’associazione di consumatori può migliorare la qualità delle scelte politiche e, quindi, della democrazia.

Ecco perché dovremmo forse chiamarla “legge sulla trasparenza delle decisioni pubbliche”: a noi cittadini dovrebbe importare sapere quali sono i soggetti che hanno contribuito a determinare una scelta politica che avrà ricadute sulla vita di ciascuno di noi. E capire se i parlamentari o i ministri hanno davvero tenuto conto di tutti i punti di vista utili o solo di quelli più forti e consolidati. Perché una efficace normativa sul lobbying dovrebbe da una parte rendere trasparenti le interazioni tra chi siede nelle istituzioni e i portatori di interessi, particolari o generali che siano. Dovrebbe insomma fare una fotografia degli attori che sono stati chiamati (o che si sono proposti) di contribuire a una politica pubblica. E per questo non avrebbe davvero senso che Confindustria o i sindacati confederali si sottraessero agli obblighi di rendicontazione previsti da una legge del genere. Dall’altra, dovrebbe incentivare nuovi attori a partecipare alle decisioni pubbliche rendendole più inclusive. Le 31 organizzazioni della società civile che hanno costituito la coalizione Lobbying4Change (tra le altre, Greenpeace, Altroconsumo, Transparency, WWF, Lipu, Slow Food) lamentano troppo spesso gravi asimmetrie informative che impediscono loro di conoscere l’agenda politica di ministri e parlamentari ed essere pronti a dare il loro contributo. Un esempio concreto è stato il PNRR: la società civile è stata coinvolta poco o nulla nella definizione del Piano di recupero e prova ne sono le audizioni parlamentari (avvenute comunque a valle delle scelte compiute dal governo) in cui – ad esempio – la commissione Trasporti non ha ascoltato le associazioni degli utenti e dei consumatori e quella agricoltura quelle ambientaliste.

Noi cittadini avremmo tutto l’interesse che i rapporti tra i molteplici gruppi di pressione e le istituzioni venissero regolamentati e resi molto più aperti e inclusivi. Per questo, crediamo vadano rigettati i favori verso Confindustria e i sindacati: queste categorie, infatti, hanno già pieno accesso alle istituzioni e dispongono della linea diretta per poter influenzare le decisioni pubbliche. Molte altre categorie non hanno questa fortuna e rimangono fuori dai tavoli decisionali. Se passasse questo emendamento, associazioni imprenditoriali e sindacati potrebbero agire liberamente fuori da ogni regola, mentre tutti gli altri avrebbero l’obbligo di lavorare, giustamente, in piena trasparenza. Ci sembra evidente che ciò andrebbe a creare uno squilibrio nelle opportunità di accesso al processo decisionale pubblico favorendo i pochi a discapito dei molti.

*Federico Anghelé, direttore The Good Lobby, portavoce coalizione Lobbying4Change


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