Welfare & Lavoro

Usura in pandemia? Si combatte con l’antimafia di prossimità

Paolo Lattanzio, deputato PD e membro della Commissione Bicamerale Antimafia ha dato alle stampe il suo ultimo libro “La pandemia mafiosa” edito da Rubettino, in cui spiega « I mafiosi lavorano dal basso e sul territorio. Nello stesso modo deve operare l’antimafia. Dobbiamo cominciare nei micro ambiti».

di Lorenzo Maria Alvaro

Dal 2002 Paolo Lattanzio fa dell’antimafia e della difesa dei più deboli il centro del suo impegno politico. In parlamento al 2018 è deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia. «Ho deciso di scrivere questo libro (“La pandemia mafiosa”) per tutti quei segnali che ci dicevano quanto la crisi conseguente al Covid rischiasse di diventare un terreno di caccia delle cosche». L’intervista


Com’è nata l’idea del libro?
Per due motivi. Il primo molto pratico è che presiedo il comitato che nell’ambito della Commissione antimafia si occupa proprio delle infiltrazioni mafiose in epoca Covid. Il Comitato ha prodotto una prima relazione intermedia che fotografa il primo anni di pandemia, approvata all’unanimità a giugno 2021. Dall’altro lato per una sensazione che ho sviluppato che mi diceva che sia dal lato economico che sociale stavamo vivendo un grande fatica che avrebbe aperto alle porte alle attività mafiose. L’usura in particolare prospera nei momenti di grande difficoltà economica.

La sensazione che aveva si è concretizzata dal punto di vista dei dati?
Diciamo subito che numeri veri e proprio non ci sono perché l’usura è un fenomeno particolare e sommerso. L’unica cosa che fa emergere i casi di usura sono le denunce ma che richiedono tipicamente molto tempo. In questo senso in ogni caso abbiamo avuto un modesto ma chiaro aumento delle denunce di questo tipo nei primi sei mesi del 2020. Affianco a questo dato la Guardia di Finanza certifica il raddobbio, nello stesso periodo, delle confische. Detto questo io nel libro traccio degli scenari. Confermati dalla relazione semestrale della DIA, dalla UIF della Banca d’Italia. In sintesi il rischio di infiltrazione mafiosa nei nuovi settori commerciali ed economici diventati prioritari con la pandemia è evidente. Il rischio di infiltrazioni in imprese che erano sane e che rischiano di essere espropriate dai criminali è evidente. L’impoverimento delle comunità sociale, la perdita di lavoro e l grande disponibilità di usura sono evidenti.

Non sono bastati i ristori?
Al contrario. Sono stati un grande deterrente come dicono i dati Unioncamere. Non bastano ma sono stati importanti. E ancora più importanti saranno le disponibilità del PNRR.

Lei nel libro parla di antimafia di prossimità. Cosa significa?
Una cosa che dobbiamo dirci chiaramente un dato: non sono più gli usurai ad andare a cercarsi i clienti. Ma sono gli imprenditori che vanno a cercare l’usura. Questo certamente dipende da una quota di disperazione. Ma ci dice anche che c’è un problema culturale: per molti cittadini l’usura è semplicemente una delle tante leve finanziarie possibili. L’antimafia di prossimità è la risposta uguale e contraria al modus operandi mafioso. I mafiosi lavorano dal basso e sul territorio. Nello stesso modo deve operare l’antimafia. Dobbiamo cominciare nei micro ambiti.

Questo è una critica all’antimafia sociale?
Sì, un’autocritica mi permetto di dire. L’antimafia sociale si è chiusa. Ha invece necessità di aprirsi, per avere la sua tradizionale spinta rivoluzionaria, di attrarre competenze giovani e professionali che possano arricchire e diversificare la lotta. Per fare un esempio oggi non si può pensare di fare antimafia senza coinvolgere gli urbanisti. In secondo luogo l’antimafia deve evolvere ampliando i temi da trattare: bisogna parlare di lavoro buono, di diritti, di contrasto alla povertà educativa. Questi temi rappresentano oggi l’intelaiatura di questa lotta. Che deve diventare di prossimità: quartiere per quartiere. Coinvolgendo il singolo disoccupato.

È un tema di rete quindi?
Ad oggi magistratura e forze dell’ordine parlino meglio la lingua aggiornata dell’antimafia sociale rispetto a buona parte della società civile. Quando sento parlare il magistrato Giuseppe Gatti sento parlare di “antimafia del noi”. Federico Cafiero De Raho, parla di prevenzione nelle scuole da ormai dieci anni. È una convinzione ben consolidata. Quindi certamente c’è da fare rete e da imparare gli uni dagli altri. Il punto è che la società civile che è meno strutturata può portare due valori aggiunti: ampliare il bacino delle persone coinvolte e far emergere i nuovi bisogno. L’antimafia deve diventare qualcosa di molto simile al green.

Quindi una questione culturale?
Non c’è dubbio. Prima di tutto è una battaglia culturale. Ieri in Commissione Cultura dove ero convocato per dare un parere al decreto PNRR infiltrazioni mafiose mi è stato detto che i temi che sollevavo in ambito antimafia non erano di competenza della commissione. Invece non è così. Se parliamo di mafia parliamo principalmente di un tema culturale e sociale. Che quindi ha anche fare con la scuola ma con qualunque altro spazio di aggregazione e formazione. Deve diventare una discriminante. Soprattutto in una fase di impoverimento economico, educativo e culturale del Paese.


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