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Fisco e Terzo settore: basta rinvii, ora serve chiarezza

Con il Runts (Registro unico) operativo, in assenza di modifiche normative, dell'autorizzazione UE e di interpretazioni dell'agenzia rischiamo davvero che l'intero sistema architettato dalla riforma del 2017 vada a sbattere

di Marco D'Isanto

Nonostante l’operatività del RUNTS e lo sforzo condotto in questi mesi dal Ministero del lavoro per completare l’attuazione della Riforma del Terzo Settore siamo ancora in alto mare per la parte fiscale. E non si tratta di acque calme, per restare nella metafora marina, perché nel frattempo sono intervenute diverse disposizioni che hanno complicato ulteriormente il quadro delle norme tributarie per gli Enti di Terzo Settore. Dal 2017, anno di approvazione della Riforma, sono trascorsi quasi 5 anni: un tempo infinitamente grande considerando gli eventi economici e sociali che hanno investito il mondo in questo lasso di tempo.

L’autorizzazione Ue e la legge di Bilancio 2022

Il titolo decimo del Codice del Terzo Settore (d’ora in poi Codice) che racchiude buona parte delle disposizioni fiscali della Riforma è sospeso perché la sua applicazione decorre dal periodo di imposta successivo all'autorizzazione della Commissione europea, richiesta che il governo non ha ancora formulato. Analoga situazione vige per le misure fiscali agevolative previste per le Imprese Sociali la cui attuazione dipende anch’essa dall'autorizzazione della Commissione europea che anche in questo caso non è stata inoltrata. Per gli Enti di Terzo Settore la situazione è resa ancora più complessa dal fatto che l’impianto fiscale richiede necessariamente una revisione, giudizio unanimemente condiviso dagli operatori e dagli esperti di fiscalità. Questa esigenza sembrava essere parzialmente accolta negli emendamenti presentati alla Legge di Bilancio 2022. Le modifiche prevedevano di considerare nei costi di produzione delle attività realizzate dagli ETS anche il valore normale dei beni acquisiti a titolo gratuito, ivi incluso il valore normale delle prestazioni di volontariato e la differenza tra il valore normale dei beni e servizi acquistati ai fini dello svolgimento dell'attività statutaria e il loro costo effettivo di acquisto. Tali modifiche, sebbene non approvate, rappresentavano un piccolo passo avanti nel tentativo di attenuare il concetto di commercialità che oggi vige per definire la natura delle attività condotte e con essa la qualifica fiscale degli Enti di Terzo Settore.
Per alcuni versi una pezza su un vestito vecchio che rischiava comunque di generare ulteriori complessità nella gestione fiscale di questi enti e che ignorava l’esigenza di superare il concetto di commercialità/non commercialità per qualificare fiscalmente le attività degli Enti di Terzo Settore.

Cosa è commerciale?

Il concetto di commercialità trova la sua origine nel presupposto che la produzione di un reddito di impresa fiscalmente imponibile debba essere collegato esclusivamente alla capacità di una attività di generare entrate superiore ai costi indipendentemente dalle strutture giuridiche utilizzate e dalle finalità perseguite nell’esercizio dell’attività. Gli enti possono qualificarsi come “non commerciali” solo se sono in grado di attrarre entrate di natura non corrispettiva, e dunque non derivanti dall’esercizio di una attività economica, in forma prevalente rispetto all’esercizio di attività commerciali remunerate dal mercato. Questo principio contenuto nel nostro ordinamento tributario è stato progressivamente attenuato proprio dal recepimento di norme destinate ad enti mutualistici (le cooperative) o del Terzo Settore (ad. esempio le Onlus, le ASD e le SSD, gli enti speciali normati nell’ art. 148 del TUIR etc).
Lo scarso rilievo attribuito dal legislatore tributario alla dimensione soggettiva dell’ente che produce la “ricchezza” nonché alla destinazione funzionale di quella ricchezza è stato progressivamente messo in discussione e la normativa tributaria per le Imprese Sociali lo dimostra. Questa nozione di attività economica, intesa nella sua pura oggettività, trova riconoscimento nel diritto alla tutela della concorrenza il quale si preoccupa di garantire che in ambito nazionale ed europeo non ci siano vantaggi destinati ad una particolare categoria di soggetti la cui attività possa alterare la normale competizione sul mercato a prescindere dalle finalità perseguite e dalla natura soggettiva dell’ente.
È da questo concetto di “commercialità” che il legislatore ha tratto ispirazione per regolare il trattamento fiscale degli ETS imponendo agli Enti di Terzo Settore commerciali di subire la medesima tassazione degli altri enti commerciali con finalità lucrativa. Quello che rileva dunque ai fini impositivi non è lo scopo perseguito né la sua connotazione non lucrativa ma le modalità di svolgimento delle attività le quali, se condotte in modo imprenditoriale e cioè finalizzate ad ottenere un lucro oggettivo, sono considerate commerciali e dunque tassabili.

Diverso è stata invece la scelta effettuata in ordine alle Imprese Sociali. Esse infatti sono destinatarie di una norma che attribuisce la totale detassazione degli utili a condizione che destinino gli stessi utili nell’ambito dell’attività statutaria dell’ente. Cosa ha indotto il legislatore ad innovare il quadro normativo preesistente attribuendo a questa categoria di soggetti un vantaggio tributario così importante? Qui il ragionamento è stato rovesciato rispetto agli ETS. Si è riconosciuta non solo la finalità non lucrativa delle Imprese Sociali ma la realizzazione di attività socialmente rilevanti e pertanto meritevoli di essere agevolate.

Il divieto di distribuzione degli utili, ma soprattutto le finalità perseguite dalle Imprese Sociali, ancorché realizzate ab origine sotto forma imprenditoriale, ma all’interno di un sistema regolatorio e di controllo pubblico definito, ha spinto il legislatore a riconoscere una estesa agevolazione fiscale indipendentemente dalle forme giuridiche utilizzate. L’innovazione introdotta non è di poco conto: le finalità perseguite dall’ente hanno prevalso nella caratterizzazione tipologica dell’ente stesso consentendogli di godere di un regime fiscale di vantaggio. Ma a questi interrogativi sulla parte fiscale contenuta nella Riforma se ne sono aggiunti altri. L’operatività del RUNTS, in assenza dell’attuazione della parte fiscale, pone l’interrogativo su quali siano le norme fiscali che gli Enti di Terzo Settore, soprattutto quelli di nuova costituzione, debbano applicare.

La grande incognita dell’Iva

Altro tema di grande rilevanza è la questione Iva. E’ noto infatti che il legislatore ha introdotto per talune prestazioni l’esenzione Iva in luogo della non imponibilità sospendendone l’applicazione per 24 mesi. Questo profilo di incertezza risulta accentuato dall’indeterminatezza delle norme iva applicabili agli enti di terzo settore.

Questi dubbi hanno spinto chiaramente le Onlus a ritardare il proprio ingresso nel Terzo Settore in attesa di conoscere meglio il profilo fiscale a cui vanno incontro. Le Onlus infatti, che sceglieranno di assumere la qualifica di Imprese Sociali, correranno il rischio di perdere l’agevolazione di esenzione Iva per molte delle prestazioni da esse tipicamente svolte essendo, tali agevolazioni, limitate ai soli enti di terzo settore non commerciale. Sul tema vale la pena segnalare una interessante sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza 2 novembre 2021| n. 30975) che ha ritenuto, in relazione all'esenzione da Iva, prevista dall'art. 10, comma 1, n. 27-ter, D.P.R. n. 633/1972, che anche una società commerciale possa soddisfare il requisito di "ente avente finalità di assistenza sociale" e quindi godere dell’esenzione, in quanto, alla luce della giurisprudenza comunitaria, la nozione di "organismi riconosciuti come aventi carattere sociale dallo Stato membro interessato" non esclude che enti privati commerciali possano avere le caratteristiche di ente con "carattere sociale" prevalente, se perseguono attività non caratterizzate dalla sistematica ricerca del profitto. Sentenza questa che apre la possibilità per le imprese sociali, contrariamente a quanto sostenuto dall’amministrazione finanziaria, di godere dell’esenzione Iva per le prestazioni socio-sanitarie e di assistenza domiciliare.

Il ritardo con cui si sta procedendo per dare stabilità alla Riforma del Terzo Settore rischia di vanificare gli sforzi compiuti finora e indebolisce un pezzo importante dell’economia sociale del nostro Paese. I soli nuovi 485 enti (enti che precedentemente non comparivano nei vecchi registri di settore delle organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e Onlus, ndr) che hanno finora volontariamente deciso di aderire al RUNTS a partire dalla sua operatività ne sono la plastica dimostrazione.


*commercialista esperto di non profit e consulente per il Terzo settore


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