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Cartabia al Sermig. «Al carcere di Torino ho visto un reparto disumano»

“Pace e giustizia”, soprattutto una giustizia ancora lontana dal compiersi nel carcere di Torino, sono stati i temi al centro dell’incontro al Sermig di Ernesto Olivero della Ministra della Giustizia Cartabia

di Luca Cereda

«Cos’è la giustizia?», si è chiesta come prima cosa, a se stessa e al pubblico, la Ministra Cartabia al Sermig dopo la visita al carcere di Torino al centro di un’inchiesta per presunte violenze e torture sui detenuti. «Nessuno sa la risposta. Ma l’unico modo di capirlo è partire dall’esperienza di ingiustizia». È la riflessione con cui la Ministra Cartabia ha iniziato l’incontro all’Università del dialogo del Sermig. Ospite di Ernesto Olivero, fondatore del centro che è un simbolo di integrazione, accoglienza e solidarietà.

Maltrattamenti e abusi, tutto quello che il carcere non deve (più) essere

La giornata torinese della ministra è iniziata proprio il carcere di Torino, oggetto di inchieste e processi che raccontano presunte violenze, torture e maltrattamenti avvenuti all’interno di alcune sezioni del penitenziario. «Non è tempo di distinzioni né contrapposizioni inutili – ha detto Cartabia -, le difficoltà in questo carcere sono tangibili, ma se ci sono forza, sinergia, cooperazione e uno spirito di unità come mi è stato segnalato, facciamo in modo che diventino il paradigma per il cammino che ci attende». La Ministra è stata accompagnata dentro l’istituto di pena dalla neo-direttrice della casa circondariale Cosima Buccoliero, dal vicecomandante della polizia penitenziaria Maurizio Contu e dalla garante dei detenuti Monica Gallo. Ha attraversato i padiglioni di alta sicurezza, ma anche gli spazi di camminamento e le aule universitarie dove si tengono le lezioni. Cartabia ha preso la parola anche subito dopo la sua visita in carcere, parlando incontro con il sindaco Stefano Lo Russo, che l’ha accolta a Palazzo Civico: «C’è la consapevolezza delle difficoltà logistiche e ambientali in questo carcere, e lo spirito di collaborazione che ho trovato dalla nuova direttrice dev’essere solo il punto di partenza, ho trovato un reparto al limite del disumano», ha spiegato la guardasigilli.

La situazione del carcere di Torino e da dove ripartire

A Torino, nel suo carcere, è infatti aperto un procedimento per decine di episodi di violenza consumati tra il 2017 e e il 2019 – e aggravatisi con le rivolte della primavera 2020 con l’inizio della pandemia – e portati all’attenzione della magistratura dalla garante dei detenuti Monica Gallo. L’inchiesta coinvolge l’allora direttore del carcere, Domenico Minervini (rimosso dall’incarico), l’ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni Alberotanza (idem), i sindacalisti Leo Beneduce e Gerarado Romano. Avrebbero coperto o informato delle indagini gli autori delle vessazioni, poliziotti penitenziari violenti e maneschi. Ad essere presi di mira, stando ai racconti e agli accertamenti, furono in particolare i detenuti più fragili, quelli che dimostravano qualche scompenso psichico.

«Picchiavano e ridevano», scrive la procura nel capo d’imputazione di alcuni agenti. Calci, pugni, sputi. Un detenuto venne insultato e costretto a ripetere: «Sono un pezzo di merda». A un altro urlavano «figlio di puttana, ti devi impiccare» e gli ruppero il naso e un dente.

Ieri però a lungo si sono confrontati sul futuro del Lorusso e Cutugno, anche a fronte dell’impegno del Ministero per stanziamenti di ulteriori fondi per il penitenziario dopo quelli già elargiti. L’obiettivo è riaprire la sezione chiusa entro l’estate, con un ulteriore finanziamento di un milione di euro per gli impianti di videosorveglianza. «Abbiamo condiviso l’esigenza di una nuova fase di gestione della casa circondariale. Da parte nostra c’è il massimo impegno e da parte sua massima disponibilità a farsi parte attiva», ha concluso Lo Russo.

In carcere bisogna ripartire dalla «laurea di un detenuto»

La guardasigilli ha scelto di continuare la sua riflessione all’Arsenale della Pace del Sermig con un’immagine evocativa: l’affresco del “Buono e del Cattivo Governo” di Ambrogio Lorenzetti: ovvero un’allegoria in cui la giustizia genera concordia e buon governo, che consente alla pace, rappresentata da una donna, di sedersi su un cumulo di armi: «C’è un nesso tra giustizia e pace sociale. Ma non è automatico. È una scelta. Perché l’ingiustizia genera rabbia e vendetta. Ma la risposta può essere diversa». E in questo contesto assume un ruolo il concetto di rieducazione all’interno del carcere. A sollevarlo una ragazza, rivolgendo una domanda. «Siamo fiduciosi che il carcere possa diventare ciò che la costituzione chiede: un luogo di rieducazione – aggiunge Marta Cartabia -. Ho visitato un reparto inguardabile per la disumanità, le condizioni di lavoro della polizia e quelle di vita dei detenuti. Ma ho visto anche il volto di un ragazzo che si è laureato a seguito di percorso in cella. Sono fiduciosa che il carcere possa diventare ciò che la Costituzione preveda che sia».


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