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Economia & Impresa sociale 

Profughi ucraini e lavoro: guardiamoci dallo spreco dei talenti

Dopo la prima accoglienza, è tempo di accendere un faro sul tema lavoro. Ambrosini: «Non possiamo immaginare che tutte le donne arrivate dall'Ucraina si dedichino all'assistenza dei nostri anziani, né che vogliano farlo». Apprendimento della lingua e certificazione delle competenze sono i primi step da fare come sistema. Ma anche nel piccolo si può dare una mano per facilitare l'occupabilità di queste donne: come "nonni sociali" o passando del tempo insieme per parlare italiano

di Sara De Carli

Non solo badanti, togliamocelo dalla testa. Sarebbe uno spreco di competenze, che in realtà è uno dei punti più critici della nostra gestione dell’immigrazione. Dopo la fase delle risposte ai bisogni primari delle persone in fuga dall’Ucraina, è tempo di iniziare a ragionare di quali prospettive ci siano sul fronte del lavoro. Per farlo però si deve partire da “chi sono” e “cosa vogliono” queste persone, in larghissima parte donne e minori, per il loro futuro. I primi passi sembrano andare nella direzione giusta: la direttiva 55/2001, applicata per la prima volta, dà immediatamente la possibilità di lavorare e andare a scuola e il decreto legge n. 21/2022 deroga alla disciplina del riconoscimento delle qualifiche professionali per medici e operatori sanitari ucraini. «Dovremo aspettarci una permanenza non breve di queste persone: che sia in Italia o altrove dipenderà anche dal modo in cui le accogliamo», dice Maurizio Ambrosini, sociologo esperto di migrazioni, docente all’università Statale di Milano. Anche nel mondo del lavoro.

Da dove partire?
Inevitabilmente da “chi sono” le persone arrivate, che cercheranno lavoro una volta stabilizzate. Sono per lo più donne, lo sappiamo, ma non con le stesse caratteristiche anagrafiche delle tante ucraine che si trovavano già in Italia, spesso impiegate nell’assistenza ai nostri anziani, in coabitazione, con l’obiettivo prevalente delle rimesse. Ora si tratta di donne giovani, di madri. Madri con figli relativamente piccoli e quindi bisognosi di cura. Questo avrà implicazioni rilevanti per il loro potenziale di partecipazione al mondo del lavoro. Noi semplificando in questi giorni forse ci siamo fatti l’idea che uno sbocco quasi naturale sarà l’assistenza agli anziani ma nella realtà è molto probabile che salvo arrangiamenti particolari e provvisori, per cui una famiglia italiana accetti di avere un’assistente che coabita con l’anziano insieme ai figli, credo che nella maggior parte dei casi saranno proprio queste donne a non essere disponibili a questo tipo di occupazione, sia per ragioni familiari sia per ragioni biografiche, legate alle competenze. Il mercato dell’assistenza inoltre è rigido: come in tempi di crisi la domanda c’è e non è comprimibile, così anche in momenti in cui l'offerta sarebbe più ampia la domanda ha già trovato risposta… Possiamo mettere in conto che qualche famiglia pensi di assumere una persona in forma part time, per solidarietà, ma non saranno grandi numeri.

Dobbiamo partire inevitabilmente da “chi sono” le persone arrivate: donne giovani, madri, con figli relativamente piccoli e quindi bisognosi di cura. Questo avrà implicazioni rilevanti per il loro potenziale di partecipazione al mondo del lavoro. Abbiamo in mente che le donne ucraine fanno le badanti, ma probabilmente queste donne non saranno disponibili per questo tipo di occupazione, sia per ragioni familiari sia per ragioni biografiche

Maurizio Ambrosini

Rispetto alle competenze delle donne che stanno arrivando, possiamo dire quindi che siano di fronte a persone qualificate, con un certo background, con titoli di studio?

Per adesso abbiamo più che altro impressioni, non dati. Ma sì, la sensazione è quella. I primi giorni sono arrivate persone che si sono messe in auto da sole, per lo più persone della classe media, con tutta probabilità in possesso di competenze professionali, come leggiamo anche dalle storie che arrivano alle cronache. Il decreto n. 21 del 21 marzo 2022 consente di assumere direttamente medici, infermieri e personale ausiliario, saltando i vincoli che finora hanno frenato il riconoscimento delle competenze – nella sanità sono probabilmente più oggettivamente certificabili – e il vincolo del possesso della cittadinanza italiana. È un settore in cui abbiamo molto bisogno, anche se non va trascurato il tema della lingua.

Si deve partire dall’italiano quindi?
La prima cosa per l’occupabilità è l'apprendimento della lingua. E l’occupabilità viene prima dell’occupazione. Qui c’è un grande compito per il volontariato, per l'associazionismo. Non si tratta solo o tanto di volontari che si attivino per dare lezioni di italiano formali, per questo c’è offerta pubblica strutturata, ma di creare localmente dei gruppi di accompagnamento, con famiglie tutor che si attivino per far praticare l’italiano nella dimensione quotidiana, con gite, domeniche passate insieme… Sappiamo quanto tutto questo possa accelerare l’apprendimento della lingua e quindi il conseguimento dell’occupabilità.

C’è un grande compito per il volontariato, per l'associazionismo. Non si tratta solo o tanto di volontari che si attivino per dare lezioni di italiano formali, per questo c’è offerta pubblica strutturata, ma di creare localmente dei gruppi di accompagnamento, con famiglie tutor che si attivino per far praticare l’italiano nella dimensione quotidiana, con gite, domeniche passate insieme. Tutto questo accelererà l’occupabilità

E per riconoscere rapidamente le competenze di queste persone?
Credo sia importante attivare delle procedure e soluzioni istituzionali per la rilevazione e il riconoscimento delle competenze e – ove servisse – per il completamento della loro trasferibilità. Se sono arrivate donne laureate in matematica, che facevano le insegnanti, vanno aiutate prima a imparare la lingua e subito dopo a integrare la loro formazione per poter svolgere un lavoro analogo anche in Italia. La verità è che la certificazione delle competenze è una cosa che in Italia non ha mai funzionato e uno dei nostri grandi problemi nella gestione dell’immigrazione è lo spreco di capitale umano. Per le donne a maggior ragione. Questo vale non solo per le donne ucraine: ai nostri occhi il loro sbocco professionale è l’assistenza di tipo domestico, al più in una RSA… Facciamo fatica a riconoscere il loro titolo di studio. Serve che i servizi per l’impiego siano attrezzati e rafforzati per questo compito. E serve anche maggior coinvolgimento delle imprese, che sono il tallone d'achille della gestione immigrazione in Italia. Al di là dei singoli imprenditori, della buona volontà individuale, il mercato lavoro italiano nel suo complesso trae profitto dall’immigrazione senza mai prendere posizione politica, sfruttano per così dire “le ruote di sforzo” dell’accoglienza che altri svolgono. Auspicherei una maggiore assunzione di responsabilità collettiva da parte di Confindustria, Confcommercio, Confartigianato. È un momento favorevole, perché c’è finalmente ripresa della domanda, il mercato è in ripresa.

La verità è che la certificazione delle competenze è una cosa che in Italia non ha mai funzionato e uno dei nostri grandi problemi nella gestione dell’immigrazione è lo spreco di capitale umano. Per le donne a maggior ragione.

Però tutti dicono che vogliono tornare a casa al più presto, appena possibile. Ha senso allora avviare percorsi volti all’occupazione?
Tutti le persone che fuggono da una guerra dicono che vogliono tornare al più presto. Poi purtroppo però i dati dell’Onu dicono che negli ultimi dieci anni il ritorno è diventato più difficile e raro che nel decennio precedente. Io auguro a tutti di poter tornare, ma credo che realisticamente dovremo aspettarci una permanenza non breve di queste persone. Un po’ dipenderà anche da come noi le accogliamo, se li mettiamo in un campo è probabile che se ne vadano dall’Italia verso qualche altro paese. Dipende da noi.

Dicevamo all’inizio che il fatto che ci siano tante mamme con bambini piccoli è qualcosa di inedito, che impatterà anche sulla possibilità di lavorare. Serviranno più nidi?
Anche qui si può attivare il volontariato italiano, con dei “nonni sociali”. Ma vedo anche un’altra prospettiva, che vale per i bambini come per altri bisogni, cioè che si aiutino le persone ucraine ad auto-organizzarsi. La comunità dei filippini lo fa già, hanno forme di aiuto interne alla comunità, per cui alcune donne si prendono cura dei bambini delle donne che lavorano. Una parte di sbocchi occupazionali possono essere creati così, intracomunitari, a patto che ci sia un po’ di supporto. Trattandosi di una popolazioni fragile con numerosi bisogni ci sarà una domanda di servizi e si possono creare dei posti di lavoro al servizio della comunità stessa.

Foto di Serhii Hudak/Avalon/Sintesi


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