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Dall’impresa alla persona, il fallimento non spaventa più

Cresce anche in Italia un pensiero che tende a rivalutare l'insuccesso. Figlia dell'approccio americano del Chapter 11, ossia di una legislazione nata per dare una seconda chance agli imprenditori che non ce la fanno, si fa strada la mentalità che considera la sconfitta professionale e personale come opportunità e non come stigma

di Giampaolo Cerri

L’articolo di Nature è del 2010, ma Arthur C. Brooks, columnist che va per la maggiore sul celebratissimo magazine americano The Atlantic, l’ha citato a fine gennaio. Si tratta di un paper scientifico di Melanie Stefan, neurobiochimica computazionale dell’Università di Edimburgo, che fa ricerca nel Centre for Discovery Brain Sciences. Si intitola, significativamente, A CV of failures, ossia “un curriculum di fallimenti”.

Come spiega Brooks, che sulla tematica si cimenta spesso essendo anche professore di Pratica di leadership alla Harvard Kennedy School, la Stefan suggeriva alle persone di tenere una lista scritta delle cose che non hanno funzionato nella vita. “Potrebbe sembrare un rimuginare”, scrive, “ma è molto diverso perché è scritto. Rimescolare le cose in testa le fa restare nel torbido regno delle emozioni, difficili da gestire. Scriverle, appunto, potrebbe costringere a uno sforzo cognitivo, aiutando un punto di vista più chiaro e logico sugli eventi e facendone vedere il loro lato positivo”.

Failure, why not?

L'articolo della Stefan ricevuto solo 18 citazioni in lavori scientifici ma, in questi anni, è diventato una specie di mantra per i molti che hanno esplorato il mondo del fallimento, come dimostrano gli oltre 13mila accessi sul sito della prestigiosa rivista scientifica.

La neurobiochimica Melanie Stefan

Sì perché il fallimento, che già nel mondo statunitense non subisce lo stigma tutto italiano di una vera e propria damnatio civile e professionale, viene sempre più spesso raccontato come produttivo e foriero di nuove chances.

Complici forse le crisi che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, da quella statunitense dei mutui subprime del 2008, seguita a ruota dalla crisi del debito sovrano, che ha abbracciato tutto il mondo a cominciare dall’Europa, per arrivare all’odierna pandemia, si è sviluppato un pensiero che potremmo definire resiliente, che ha cominciato a ripensare il fallimento, l’insuccesso aziendale, professionale, fino ad arrivare a quello personale, come una grande opportunità di rilancio, di ripresa e riscatto. Lo stesso Brooks, esperto di leadership appunto, ne è convinto, tanto che The Atlantic titola il suo contributo: “Non tutti i fallimenti vengono per nuocere”.

Brooks cita anche una collega della Columbia University, Xiaodong D. Lin che insegna Studi cognitivi. Conducendo una ricerca, Lin “ha indagato i fallimenti inevitabili di scienziati, atleti o persone comuni” e ha elaborato alcune strategie per trarre, da queste sconfitte personali, addirittura benefici. Lin e la sua équipe hanno persino condotto un esperimento: hanno raccontato a un gruppo di studenti i successi e i fallimenti di importanti scienziati mentre, a un altro gruppo, solo i successi”.

L’osservazione dei comportamenti dei discenti ha fatto emergere un dato che, per Lin, è inequivocabile: “Studiare i fallimenti motivava gli studenti a gestire meglio le sconfitte, aiutandoli a ottenere risultati e voti migliori di quelli dei colleghi a cui erano stati fatti studiare solo dei successi degli scienziati”.

Ripensare il fallimento come antidoto alla crisi?

Che sia reazione – un’autodifesa – rispetto alle crisi che ci attanagliano, o piuttosto un fenomeno psicologico di massa, il fallimento è al centro di osservazione, discussione, dibattito. E, inevitabilmente, anche in un Paese come l’Italia che, viceversa, l’ha sempre vissuto come una sorta di lettera scarlatta, si registra una sorta di sdoganamento morale. Fatto non banale, visto che, prima di una delle riforme del diritto fallimentare, quella del 2006, avevamo addirittura un “registro dei falliti” e al fallito veniva negato il diritto di voto, per cinque anni: “Gli affari ti sono andati male?”, recitava l’ideale sottotesto, dunque non puoi eleggere neppure un parlamentare.

Qualcosa di molto vicino alla gogna o altrimenti detta berlina, ossia l’esposizione pubblica di un malfattore allo scherno o anche alle percosse della gente, che da noi è durata fino un paio di secoli fa, essendo stata abolita nel Regno del Lombardo-Veneto solo nel 1814.

E anche l’ordinamento attuale comunque, dopo una procedura concordataria, che prevede la giusta tutela dei creditori di un’azienda a rischio fallimento da parte del Tribunale civile, spesso determina l’avvio di un’indagine penale per il reato di “bancarotta fraudolenta” a carico degli amministratori che pure il fallimento lo avessero scongiurato.

Un approccio molto diverso dal famoso Chapter 11 della legge americana, il Bankruptcy Code, dove c’è una forte tutela anche del debitore del quale si accerta soprattutto la buona fede e, una volta raggiunto l’accordo coi creditori, gli si concede il discharge, ossia la “liberazione” da tutti i suoi impegni.

È proprio grazie a questa legislazione, che tutela la continuità aziendale e non solo il credito del privato, ma soprattutto grazie alla cultura che l’accompagna, che molti startupper hanno potuto ricominciare da capo. E non solo negli anni 2000, è facile rintracciare anche nelle biografie dei grandi della Net Economy, come si diceva alla fine degli anni ‘90, alcune clamorose sconfitte professionali. Come quella di Steve Jobs, licenziato dalla sua Apple nel 1985, e rientratovi trionfalmente 12 anni dopo. O quella di Bill Gates, che aveva mandato a rotoli la sua Traf-o-data, fondata nel 1972 con lo storico socio Paul Allen, e con cui doveva analizzare a livello informatico i flussi di traffico. Un crack che però non gli aveva impedito, a stretto giro, di costruire Microsoft.

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La foto in apertura è di the blowup da Unsplash


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