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Bando Borghi: la logica perversa della concorrenza

Perché si impone, anche nello scontro tra “città morenti”, la logica dei bandi, vale a dire della competizione? Si dirà che non c’è altro modo, se non questo, di allocare risorse finite. Ma l’idea che il gioco della libera concorrenza tra “città morenti” possa produrre il migliore dei mondi possibili appare un pochino fantasiosa. Come nota anche il Guardian

di Angelo Palmieri e Vittorio Tarparelli

Torniamo a parlare della “lotteria dei borghi” perché le perplessità, sollevate da più parti, hanno avuto una eco internazionale. Il 25 febbraio 2022 l’edizione online del “The Guardian pubblica un reportage di Angela Giuffrida sulla querelle tra Civita di Bagnoregio e Trevinano, la frazione di Acquapendente assegnataria dei 20 milioni del bando del PNRR “Attrattività dei borghi storici”. Il titolo del pezzo è eloquente: “I fondi del Recovery mettono le città morenti d'Italia l'una contro l'altra.” Il presidente UNCEM, Marco Bussone, sentito dalla corrispondente, mette il dito nella piaga: “Se si mette un borgo contro l’altro – dice – è ovvio che ci sarà rabbia e divisione”. Questi bandi, dice, realizzeranno villaggi turistici, mentre avrebbero dovuto rigenerare le comunità. Giuffrida riferisce poi lo scetticismo dell’economista Francesco Grillo il quale, oltre alle perplessità sul rispetto dei tempi imposti dalle scadenze draconiane del PNRR, segnala il peso della “geografia” rispetto ai possibili esiti dei progetti: “Una cosa – dice Grillo – è rivitalizzare luoghi che hanno collegamenti con le grandi città, un’altra è cercare di ripopolare aree periferiche”.

Siamo al punto. Perché si impone, anche nello scontro tra “città morenti”, la logica dei bandi, vale a dire della competizione, o, per meglio dire, della concorrenza? Si dirà che non c’è altro modo, se non questo, di allocare risorse finite. E la risposta – secondo la logica dei vincitori – ci può stare, ma almeno si abbia il pudore di evitare la retorica grondante di borghi abbandonati a causa di un destino cinico e baro e che verranno presto recuperati grazie alle risorse del PNRR. Un pezzo di verità è che i soldi vanno spesi velocemente e se non andranno tutti per il fine indicato, tanto peggio per il fine. Pochi saranno i paesi che beneficeranno delle risorse e ancor meno quelli che riusciranno ad attivare un movimento virtuoso di rigenerazione e rinascita. L’altro pezzo di verità riguarda proprio la logica dei bandi attuata in contesti che richiederebbero altri strumenti, altri approcci, altre logiche. C’è un borgo in declino demografico, indebolito dalle immigrazioni e dal trasferimento dei servizi di base, abbandonato dai giovani. Il bando chiede all’amministrazione di produrre un grande progetto per invertire la tendenza. Poiché il piccolo comune non dispone di adeguate tecnicalità, ecco il ricorrere ai consulenti, i quali, nella migliore delle ipotesi, proporranno un progetto di sviluppo turistico. Per quale ragione? Perché il “turismo” (specie quello culturale) è una terapia (della parola) proposta a tutti i paesini della solitudine e poi perché se non ci sono i soggetti adeguati al progetto, si importano da fuori. Il risultato non è la rigenerazione e il contrasto al declino demografico, ma la messa al lavoro del “pittoresco”. Tanto, alla fine, decideranno i meccanismi di mercato, ossia la concorrenza, che, come vogliono Dardot e Laval, è diventata la “nuova ragione del mondo”.

Ora, l’idea che il gioco della libera concorrenza tra “città morenti” possa produrre il migliore dei mondi possibili appare un pochino fantasiosa. Abbiamo consumato foreste per scrivere libri sulle disuguaglianze, elaborato dotte strategie per ridurle e poi ci affidiamo a quegli stessi automatismi che le hanno determinate (quasi una perversa forma di omeopatia senza diluizioni). Ma quello che è accaduto con il “bando borghi” altro non è che il portato necessario di una divaricazione tra carta e territorio, tra l’astrazione delle burocrazie e la materialità dei territori. Ad esempio, gradiremmo sapere quanti dirigenti e funzionari regionali occupati a scrivere le misure dei Piani di Sviluppo Rurale o del FESR o FSE hanno mai varcato la soglia dei propri uffici, viaggiato per i paesetti, parlato con le persone e provato a costruire in maniera dialogante un programma o un progetto. È mai possibile che le procedure formali debbano avere sempre e comunque la priorità? Perché si ritiene che la conoscenza delle cifre (abitanti, densità, tasso di invecchiamento, reddito medio, etc.) debba esautorare ogni altra tipologia di conoscenza? Non dovrebbe il trasferimento di conoscenze essere una delle principali missioni delle politiche di sostenibilità (integrale) del territorio?

Che fare, dunque?

Quando si scende dal piano delle suggestive cartoline a quello delle “verità effettuali” constatiamo che non tutte le aree interne del Paese sono uguali. Ci sono i territori dell’“osso”, deserti e spigolosi, e i giardini liguri a due passi da Milano. E neppure tutti i borghi con meno di 5mila abitanti, quelli a cui si rivolge il “bando Borghi”, sono identici. Per restare sul solo tema dell’abitare, le strategie di reinsediamento sembrano ora procedere sulla via del pluralismo: perché una cosa è cercare di attrarre nuovi residenti, altra cosa è lavorare su situazioni intermittenti di “residenza”.

Insomma le politiche “one size fits all” non funzionano, così come non funzionano i bandi a “prescindere”. Il programma delle aree interne aveva intrapreso la strada delle misure ad “hoc” (cioè con risorse vincolate a specifici interventi) ma costringendo le regioni a “forzare” le misure dei fondi strutturali, con il risultato di stressare le necessità dei luoghi ad adeguamenti non sempre pertinenti. È la vecchia storia di “bisogna spendere” comunque, anche se poi le cose che si fanno non sono sempre a misura delle necessità originarie.

A meno che le diverse comunità non puntino sulla forza della cooperazione e sulla capacità di consorziarsi tra loro, riqualificando i territori, magari ripensando gli spazi pubblici e privati, soprattutto valorizzando il patrimonio, sì da renderlo funzionale ad una idea di paese vitale, capace di innovazione e di impresa.

Insomma, ci vuole un deciso slancio a ricercare un mix di impegno dell'Amministrazione comunale, la volontà dei privati, il vibrante associazionismo delle associazioni di volontariato capaci di costruire iniziative, la feconda azione "cooperativistica " che sia in grado di cucire quello che è frammentato. Una riorganizzazione istituzionale di tal fatta è necessaria. Resta innegabile comunque che la geografia dei piccoli borghi non è residuale e men che meno marginale o peggio ancora a servizio delle grandi aree urbane.

Essa è senz’altro uno spazio di possibilità e di sperimentazioni innovative in cui possono prodursi modelli virtuosi di gestione delle risorse naturali e percorsi di rigenerazione atti ad indicare nuove strade da percorrere e nuovi ambiti in cui poter investire in cerca del bene comune e nella consapevolezza di saper affrontare con misure concrete le grandi sfide del presente.

Occorre definitivamente superare il convincimento che esista solo la città come luogo deputato all’investimento e alla progettazione. È questa la vera sfida che ci tocca. Oltre al superamento di un altro ostacolo, ovvero la frammentazione degli enti locali, un fattore che davvero pone a rischio queste economie. Bisogna che tutti prendano coscienza di questa prospettiva e tutti lavorino di comune accordo su strategie a lungo periodo, intendendo il Pnrr uno strumento, non un fine e soprattutto valorizzando la soggettività dei territori in una larga intesa con le comunità.


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