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Lavoro, il sociale impari a fare employer branding

Educatori, infermieri, terapisti, Oss sono introvabili, anche per colpa di un orientamento che spinge tutto sulle STEM. Roberto Malambrì, Division Manager Medical di Gi Group, legge il paradossale mismatch in atto rispetto alle professioni di cura e sfida il sociale a un miglior employer branding. Al lavoro Vita dedica la copertina di maggio, con il titolo "Lavoro sociale, lavoro da cambiare"

di Sara De Carli

Sociale, sanitario e sociosanitario sono settori tutti alle prese con un’enorme difficoltà a reperire sul mercato i profili professionali di cui hanno bisogno. Mancano educatori, sia a indirizzo sociosanitario sia socioeducativo, mediatori culturali, infermieri, Oss. Il problema, in prospettiva, sarà sempre più ampio dato che – giustamente – il Pnrr che punta su inclusività sociale e rafforzamento delle domiciliarità. Come leggere e risolvere questo problema di matching tra domanda e offerta? Lo abbiamo chiesto a Roberto Malambrì, Division Manager Medical di Gi Group, che si occupa di Temporary, Permanent e Professional Staffing.

Si moltiplicano gli allarmi sulla tenuta stessa del sistema, con le comunità educative che chiudono e le Rsa che fanno campagne per invitare in Italia infermieri stranieri. Quali sono dal suo osservatorio i contorni della situazione? Quali sono i profili professionali nell'ambito del lavoro sociale e sociosanitario più richiesti e quelli più introvabili? Si può quantificare, almeno per alcuni, quante sono le posizioni che non si riescono a coprire?
Penso che si debba fare una distinzione tra le strategie di breve medio periodo che possono avere efficacia in un contesto emergenziale come quello appena trascorso e le strategie di lungo periodo che devono per forza di cose guardare agli elementi strutturali del problema. Il tema, ad esempio, da lei toccato del reclutamento estero di personale infermieristico esisteva già prima della diffusione del Covid19. Il governo è intervenuto durante i mesi di emergenza sanitaria liberalizzando temporaneamente la questione delle equipollenze dei titoli di studio e favorendo il rilascio dei permessi, ma i risultati ottenuti da questa giusta azione non sono stati quelli sperati e in più i datori di lavoro si chiedono cosa succederà quando queste misure straordinarie cesseranno la loro efficacia. Alla luce della profonda e persistente carenza di personale in molti si immaginano si possa andare verso una sorta di “sanatoria”, tuttavia bisogna iniziare a interrogarsi sul perché l’Italia non sia un paese attrattivo per i professionisti sanitari. I dati della FNOPI parlano di un deficit strutturale di 60mila infermieri. Tralasciando l’ambito sanitario e spostandoci su quello di area sociale, il cui tasso di occupazione a un anno dalla laurea supera il 75%, i profili professionali più richiesti sono educatori a indirizzo sociosanitario (molto più difficilmente reperibili rispetto agli educatori a indirizzo sociopedagogico), ma anche terapisti occupazionali, tecnici della riabilitazione psichiatrica, animatori sociali, mediatori culturali e la prospettiva è di ulteriore crescita anche alla luce delle linee guida del PNRR in merito ai progetti di inclusività sociale e rafforzamento delle domiciliarità delle cure rivolte ai soggetti fragili. Discorso a parte riguarderebbe gli O.S.S., privi di un ordine e di un albo professionale (e questo già la dice lunga sulla carenza di rappresentatività e riconoscimento sociale), e di cui si stima un deficit in una forbice tra il 15 e il 30% a seconda delle regioni.

Quali sono i livelli retributivi di cui parliamo? E a quanto ammonta la differenza di retribuzione per lo stesso incarico, nel pubblico e nella cooperazione sociale?
Se non guardiamo le anzianità individuali nel ruolo e le progressioni di carriera, ma semplicemente i livelli base di ingresso, un educatore nel pubblico ha una RAL media di circa 25 mila euro, mentre nel terzo settore di 20 mila. Il gap retributivo medio in percentuale, se oltre al sociale inseriamo anche le professioni sanitarie e di interesse sociosanitario, arriva anche al 30%. Se invece usciamo dal confronto interno tra pubblico e privato e leggiamo i dati retributivi per mansione in parallelo a quelli dell’OCSE, i risultati relativi al posizionamento del nostro Paese non sono affatto confortanti. Per questo ritorno sulla necessità di affrontare questi temi in una dimensione di sistema e guardando al lungo periodo.

Considerando i livelli base di ingresso, un educatore nel pubblico ha una RAL media di circa 25 mila euro, mentre nel terzo settore di 20 mila. Il gap retributivo medio in percentuale, se oltre al sociale inseriamo anche le professioni sanitarie e di interesse sociosanitario, arriva anche al 30%. E anche se leggiamo i dati retributivi per mansione in parallelo a quelli dell’OCSE, i risultati relativi al posizionamento del nostro Paese non sono affatto confortanti.

Roberto Malambrì

Quali sono le cause che determinano l'attuale situazione?
Ce ne sono molte. C’è un problema di sostenibilità economica sia da parte dei soggetti privati che erogano prestazioni di carattere sanitario e socioassistenziale e di tariffazione di queste prestazioni da parte del SSN, sia sul versante della capacità economica degli utenti e delle famiglie. C’è un problema demografico di invecchiamento della popolazione e aumento esponenziale del bisogno di cure anche ad alta intensità al quale il sistema non riesce a far fronte. C’è una filiera che forse deve ragionare più in termini di rete e di sussidiarietà che di competitività. C’è un problema culturale, soprattutto tra i lavoratori del settore di ambito sanitario, per il quale il lavoro nel sociale è spesso visto come un momento di “transito” o di “passaggio” in attesa dell’approdo ad altro (il pubblico, ad esempio, o la libera professione) e infine c’è il problema cardine che dovrebbe precedere ogni discussione sulla messa a terra delle soluzioni: la gestione e la valorizzazione del personale.

C’è una filiera che deve ragionare più in termini di rete e di sussidiarietà che di competitività. C’è un problema culturale, soprattutto tra i lavoratori del settore di ambito sanitario, per il quale il lavoro nel sociale è spesso visto come un momento di “transito” o di “passaggio” in attesa dell’approdo ad altro (il pubblico, ad esempio, o la libera professione) e infine c’è il problema cardine che dovrebbe precedere ogni discussione sulla messa a terra delle soluzioni: la gestione e la valorizzazione del personale.

Roberto Malambrì

A livello individuale invece, quando le persone fanno le loro valutazione e scelte, quali sono le principali difficoltà che riscontrate nel matching fra domanda e offerta nel lavoro sociale? Cosa allontana i giovani? La bassa retribuzione? I turni? La mancanza di prospettive di carriera? Il mancato riconoscimento sociale di queste professioni?
Il discorso retributivo che prima abbiamo in parte affrontato è importantissimo, il personale è oggettivamente sottopagato in relazione agli sforzi da lei citati (lavoro su turni, grande impatto emotivo e psicologico dell’attività, scarsa propensione alle attività domiciliari etc.) e va fatto qualcosa subito in sede di rinnovo dei contratti collettivi. Tuttavia, dal nostro osservatorio di agenzia per il lavoro stiamo anche notando che i giovani si stanno orientando a scelte professionali votate più alla soddisfazione personale intesa come aderenza del lavoro alle proprie vocazioni, piuttosto che alla sicurezza economica, al posto fisso o alla solidità finanziaria dei futuri datori di lavoro. Alla luce di ciò mi chiedo: siamo proprio sicuri che i giovani vengano adeguatamente informati negli attuali percorsi di orientamento della ricchezza personale derivante dal lavoro nel sociale e soprattutto del valore che esso rappresenta per tutta la comunità? E ancora: le aziende, le fondazioni, le onlus e le cooperative che stanno faticosamente cercando personale in questo settore, sono effettivamente in grado di porsi e raccontarsi in modo adeguato nel mercato del lavoro? Quanto curano l’aspetto di employer branding e la comunicazione all’esterno dei loro valori e della loro mission?

Per anni abbiamo assistito a una comunicazione quasi unidirezionale nell’area dell’orientamento scolastico in cui sembrava che solo alcuni indirizzi garantissero lavoro, spendibilità, occupabilità, retribuzioni, prestigio sociale. Non è sbagliato: abbiamo e avremo sempre bisogno di laureati STEM per far fronte alla rapidità delle innovazioni tecnologiche che ci circondano (anche nell’ambito della “long term care”, penso alla telemedicina, alle cartelle sanitarie elettroniche etc.) tuttavia c’è bisogno anche di altro e i numeri ce lo dimostrano in modo inequivocabile

Roberto Malambrì

Quanto pesano le scelte fatte o non fatte o sbagliate sia rispetto alla programmazione sia rispetto al profilo professionale?
Pesano moltissimo e il Covid non le giustifica in quanto preesistenti. Ma non è solo questione di “numeri chiusi” alle università, aumento delle borse di specialità in medicina etc. ma anche una questione culturale. Cerco di spiegarmi meglio: per anni abbiamo assistito a una comunicazione quasi unidirezionale nell’area dell’orientamento scolastico in cui sembrava che solo alcuni indirizzi garantissero lavoro, spendibilità, occupabilità, retribuzioni, prestigio sociale. Intendiamoci non è sbagliato: abbiamo e avremo sempre bisogno di laureati STEM per far fronte alla rapidità delle innovazioni tecnologiche che ci circondano (anche nell’ambito della “long term care” e penso alla telemedicina, alle cartelle sanitarie elettroniche etc.) tuttavia c’è bisogno anche di altro e i numeri ce lo dimostrano in modo inequivocabile. Come Gi Group siamo molto attivi nell’orientamento attraverso webinar ed eventi con Scuole e Università nei quali cerchiamo di spiegare agli studenti cosa ci stanno chiedendo le aziende in termini di competenze tecniche e trasversali e cosa devono fare per proporsi al meglio nel mercato del lavoro.

I giovani si stanno orientando a scelte professionali votate più alla soddisfazione personale intesa come aderenza del lavoro alle proprie vocazioni, piuttosto che alla sicurezza economica, al posto fisso o alla solidità finanziaria dei futuri datori di lavoro. Allora mi chiedo: siamo sicuri che i giovani vengano adeguatamente informati negli attuali percorsi di orientamento della ricchezza personale derivante dal lavoro nel sociale e soprattutto del valore che esso rappresenta per tutta la comunità? Fondazioni, onlus e cooperative che stanno faticosamente cercando personale in questo settore quanto curano l’aspetto di employer branding e la comunicazione all’esterno dei loro valori e della loro mission?

Roberto Malambrì

Si può invertire la rotta? Come? E quanto ci vorrà?
È sempre possibile invertire le rotte, ma indicare un orizzonte temporale è difficile: tutto dipenderà dagli investimenti non solo economici, ma anche culturali. Per quanto riguarda l’area sociale, assistenziale e sanitaria grazie alla spinta del PNRR sto intravedendo degli sforzi di progettualità pubblico/privato che possono rappresentare la strada per un modello diverso di gestione delle fragilità: più attori in campo, più soluzioni, e un modello finalmente multiprofessionale (integrazione area sociale e sanitaria). Credo che il successo di queste proposte, se correttamente veicolato sul piano della comunicazione, possa anche avere un riflesso sulla percezione e sull’attenzione della società rispetto a queste tematiche (anziani, disabilità, non autosufficienza, emarginazione etc.) delle quali, come noto, nessuna parla volentieri fino a quando non ne viene toccato personalmente.

E nel frattempo?
Nel frattempo penso che istituzioni, imprese, parti sociali possano fare immediatamente qualcosa. In Gi Group, dove ci occupiamo di risorse umane a 360°, ci stiamo impegnando molto anche sul versante della formazione: in campo socio-assistenziale, ad esempio, abbiamo organizzato e continuiamo a organizzare diversi corsi per A.S.A./O.S.S. che hanno permesso a molti soggetti che non potevano permettersi l’acquisto del corso a mercato, di partecipare completamente gratuitamente, acquisire la qualifica e iniziare a lavorare da subito nel terzo settore e nelle RSA nostre clienti. Ne siamo molto fieri perché molti corsisti venivano da una condizione di sommerso e di precarietà lavorativa (spesso nell’ambito dell’assistenza domiciliare) e questo percorso formativo ha permesso loro di acquisire una nuova dignità professionale e sociale garantendone l’occupabilità nel tempo.

Photo by Shubham Dhage on Unsplash


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