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Welfare & Lavoro

Un pride per il lavoro sociale

Si è tenuto a Milano il convegno "Il valore della cura". Qui la durissima relazione introduttiva di Liviana Marelli (Cnca e Forum Terzo settore Lombardia): "Troppe mortificazioni, è venuto il momento di dire basta: proviamo a pensare se il Terzo settore smettesse anche solo per un giorno il proprio lavoro. Il sistema non reggerebbe affatto"

di Liviana Marelli

Il riconoscimento della funzione pubblica del lavoro di cura svolto dal terzo settore, la valorizzazione culturale ed economica della alta professionalità degli educatori e operatori della cura, il ripensamento dei percorsi formativi universitari per queste professioni, un serio e strutturale investimento di risorse economiche sul settore. Sono, in sintesi, i pilastri necessari per ricostruire il settore della cura, le richieste che le realtà del terzo settore lombardo fanno a gran voce alle istituzioni, per affrontare una situazione che sta diventando sempre più un'emergenza: la carenza strutturale di educatori e di professionisti del welfare. Una carenza che incide pesantemente sulle persone e famiglie più fragili e sulle comunità locali. I numeri sono frammentari, ma danno l'idea della dimensione del problema: solo negli ultimi mesi, in Lombardia, sono state chiuse sette comunità per minori. Nelle case d'accoglienza mamma e bambino, si rischia di perdere circa 500 posti. La mancanza di educatori tocca molti servizi del welfare: dalle comunità che ospitano ragazzi provenienti dal circuito penale, a quelle che si prendono cura di giovanissimi con fragilità psichiche, dalle accoglienze per minori stranieri non accompagnati alle educative scolastiche, così importanti per affiancare bambini con disabilità o bisogni educativi speciali. Il manifesto che potete scarcare in allegato è stato elaborato da cinque soggetti del terzo settore milanese e lombardo (Forum del Terzo settore, Caritas Ambrosiana, Cnca, Alleanza delle Cooperative Italiane Welfare Lombardia, Uneba), che si sono radunati questa mattina, martedì 5 luglio, nella sede della Caritas Ambrosiana, in via San Bernardino a Milano, in occasione del convegno IL VALORE DELLA CURA moderato dal direttore di Vita Stefano Arduini per affrontare unitariamente il tema (qui potete scaricare il numero di VITA magazine di maggio che ha lanciato il dibattito) e affidare le proprie proposte a istituzioni, mondo accademico, organizzazioni sindacali e opinione pubblica. La relazione introduttiva che potete leggere a seguire è stata curata da Liviana Marelli, dell'esecutivo del Cnca e del Forum del Terzo settore della regione Lombardia. Qui il link per rivedere il convegno.



Centralità del lavoro di cura. chi cura il lavoro di cura? È un titolo rubato (a VITA) ma estremamente efficace. Questo convegno parte da qui. Parte dalle contraddizioni di un tempo presente dove fioriscono documenti, discorsi, affermazioni, atti formali (il Piano Infanzia, i patti educativi, I gruppi interparlamentari, il post pandemia, la crescita del disagio, la povertà educativa .. e via così) in cui si sostiene la centralità del lavoro di cura, del lavoro sociale, della cura delle relazioni, della coesione, dell’educazione. Un tempo presente che invece, nei fatti, mortifica il lavoro di cura, il lavoro sociale

  • Lo mortifica culturalmente ritenendolo appendice opzionale del sanitario (vedi PNRR)
  • Lo mortifica per carenza/insufficienza di investimenti economici
  • Lo mortifica per sottovalutazione e scarso riconoscimento professionale (un po’ volontariato, un po’ professione)
  • Lo mortifica perché mal pagato e delegittimato
  • Lo mortifica per disattenzione e sottovalutazione delle cause della crisi che oggi attraversa il lavoro sociale, il sistema sociale in senso lato
  • Lo mortifica per l’assenza di pensiero

Garantire stipendi adeguati significa garantirne la sostenibilità da parte degli enti gestori, delle cooperative sociali e anche questo richiama una responsabilità pubblica e interroga la contrattazione sindacale, il ruolo e il rapporto con le organizzazioni sindacali

Un’altra narrazione è necessaria. Le professioni di cura, in particolar modo il lavoro in ambito socio-educativo, svolgono una fondamentale “funzione pubblica” di tutela dei diritti dei cittadini, in primis le fasce più fragili. Occorre riaffermarlo con vigore, riconoscerlo e dare concretezza e sostanza a questo assunto e presupposto. Riconoscere la funzione pubblica al lavoro di cura significa cambiare paradigma nelle relazioni tra Pubblica Amministrazione e Terzo settore abbandonando la logica attuale che vede il Terzo settore mero esecutore di prestazioni predeterminate, standardizzate, burocratizzate, basate sulla competizione/concorrenza tra “soggetti gestori”, basate su logiche mercantili al “massimo ribasso” (gare d’appalto, esternalizzazione ..). Si è dato gran risalto, con infinita enfasi, agli strumenti della co-programmazione, co-progettazione Indicandoli come strumenti privilegiati nelle relazioni PA/TS, salvo constatare la realtà dei fatti e le contraddizioni evidenti: sono pratiche scarsamente usate, a volte malamente usate (dove si scrive co-progettazione ma si legge co-finanziamento da parte degli enti del TS) e permane, persiste la mortificante pratica della gara al massimo ribasso.

C’è un’altra consapevolezza, un’evidenza innegabile. Non reggerebbe il lavoro di cura, non reggerebbero i servizi socio-educativi senza il Terzo settore: un Terzo settore professionale, imprenditoriale, competente, di alto profilo. Facciamoci qualche domanda giusta: chiediamoci come mai non ci sono comunità gestite dal pubblico, come mai non c’è quasi più sistema di educativa domiciliare gestito dal pubblico, centri diurni ecc.

Perché? È prevalentemente una questione di costi e di investimenti mancati. Il re è nudo, è evidente che il sistema sociale si regge grazie al TS. Lo è stato durante la pandemia. Il sistema ha retto – e continua a reggere – grazie al TS. Proviamo a pensare se il TS smettesse anche solo x un giorno il proprio lavoro. Il sistema non reggerebbe affatto. Il lavoro di cura, il lavoro sociale è prevalentemente assunto dal TS professionale, competente, di qualità: è qui che si concretizza e va riconosciuto l’esercizio della funzione pubblica, con esplicita funzione sussidiaria prevista dalla nostra costituzione. Non c’è alcuna invasione di campo. Una funzione pubblica riconosciuta, fuori da forme di sudditanza, non una sorta di agenzia interinale a cui delegare prestazioni professionali decise altrove a un costo più basso di quello riconosciuto agli stessi operatori con pari CV, pari titolo, pari professionalità del settore pubblico (20/30% in meno circa): e’ una questione di equità , di complementarietà e di corresponsabilità ed è una responsabilità anche del TS: uscire tutti dalla zona di confort e assumere/ riassumere il ruolo politico di soggettività, protagonismo, e quindi esercitare la funzione pubblica

La professionalità di alto profilo richiesta per farsi carico delle persone più fragili, delle loro storie e dei loro diritti deve oggi trovare (o ritrovare) – culturalmente, politicamente ed economicamente – un riconoscimento adeguato e coerente. In sua assenza, i “mestieri” di cura sono sempre meno attrattivi e la conseguenza sono la difficoltà o l'impossibilità di trovare professionisti competenti e disponibili a coprire il fabbisogno dei servizi. Non è questo il contesto per parlarne e possiamo certamente farlo in altra sede, ma la recente DGR della direzione non è la panacea, non risolve, non può essere la soluzione. È una toppa, che prova a dare risposta a un bisogno evidente (tenere aperti i servizi di cura) attraverso una eterogeneità di professioni coinvolte , con attenzione a non generare abuso di titolo.

Siamo in una indubbia situazione di emergenza che le organizzazioni di Terzo settore affrontano da mesi – in particolar modo per quanto riguarda gli educatori professionali – ma che si allarga al servizio sociale e ad altre professionalità sociosanitarie e ha concorso alla chiusura, nell’ultimo anno, di alcuni servizi, principalmente di comunità educative per minori.

Non ci sono dati ufficiali (anche questa è una mancanza). Ma in Lombardia nel tempo recente hanno chiuso ben 7 comunità educative a fronte di un a richiesta importante di accoglienza non ci sono i presupposti di sostenibilità per le comunità e gli alloggi di avvio autonomia per genitori/figli, si riesce a coprire con enorme fatica non più del 20% delle richieste di personale in particolare per quanto riguarda gli educatori. Tutto questo non può essere una “questione” esclusiva dell’Ente gestore, una colpa, una carenza. Una penale inflitta perché il servizio di ADM non parte perché non si trova l’educatore. Il TS ha fatto da capro espiatorio già troppo. È finito il tempo.

I servizi di cura chiudono, gli educatori non ci sono. Il lavoro di cura è sempre più complesso, (vulnerabilità grave, disagio psichico..nelle comunità prevalentemente adolescenti, anche migranti..), il lavoro di cura richiede maturità , capacità relazionale, equilibrio, attitudine e competenza

La responsabilità della cura è pubblica. Non è una questione privata del TS. Gli educatori non restano perché gli stipendi sono bassi, inadeguati, irrispettosi della competenza e della qualità professionale e della responsabilità richiesta. Un educatore in comunità prende poco più di 1.200 € mese con le notti, i fine settimana ecc. pur applicando integralmente il CCNL delle Cooperative sociali, o di UNEBA. Garantire stipendi adeguati è un obiettivo comune, del Terzo settore in particolare che “tocca con mano” direttamente e più di altri il valore del lavoro di cura e le insopportabili inadeguatezze degli stipendi. Ma garantire stipendi adeguati significa garantirne la sostenibilità da parte degli enti gestori, delle cooperative sociali e anche questo richiama una responsabilità pubblica e interroga la contrattazione sindacale, il ruolo e il rapporto con le organizzazioni sindacali (OOSS). Occorre avere chiaro con chi e di cosa stiamo parlando: le cooperative sociali sono rette da soci , quasi sempre soci – lavoratori. Non può essere applicata la logica della contrapposizione “padrone – lavoratore”. Padrone chi? Il socio lavoratore che ha assunto (pro tempore, perché la cooperazione sociale è un organismo democratico) la rappresentanza legale e la responsabilità? E ancora, l’aumento degli stipendi deve corrispondere a un adeguato, strutturale, serio investimento di risorse economiche per il lavoro di cura. Se le rette continuano a essere sotto anche di 30 € die a quanto dovrebbe essere nel rispetto delle DGR autorizzative/di accreditamento come è possibile sostenere retribuzioni più giuste? Come è possibile garantire un “buon lavoro” in ADM con bandi la massimo ribasso dove non è riconosciuto “l’indiretto” che fa la qualità del servizio (equipe, formazione, supervisone..)? Come è pensabile che tutto si esaurisca nel rinnovo – doveroso – dei contatti senza assumere responsabilità politica per rendere sostenibili i doverosi aumenti?

E ancora, l’interlocutore non può essere solo l’Ente Locale , titolare si della competenza ma non delle risorse. Occorre allora avere chiaro “come stanno le cose” e essere capaci , insieme, di pretendere maggiori risorse e investimenti x il lavoro di cura da parte dello Stato e sostenere l’ente locale . Eppure , ancora una volta, è il TS a farsi parte attiva anche nell’emersione del problema, assumendo responsabilità diretta anche nella gestione delle difficili relazioni con gli Enti locali. Non abbiamo trovato al nostro fianco le OOSS. , come se fosse “cosa nostra” invece che responsabilità collettiva e l’esercizio della funzione pubblica. Continuiamo a percepire distanza, contrapposizione, incomprensione, assenze: abbiamo lo stesso obiettivo di rispetto della dignità del lavoro, ma siamo percepiti come antagonisti: siamo lavoratori e padroni. Un ossimoro evidente e inaccettabile, raggiungere remunerazioni adeguate ha a che fare con maggiori investimenti di risorse economiche. È questa la battaglia comune , fianco a fianco, senza pregiudizi. Diversamente, il rischio è che chiudano le cooperative, non solo i servizi con perdita evidente di mutualità, imprenditorialità, posti di lavoro. Anche tutto questo interroga la responsabilità comune.

Occorre quindi costruire nuove alleanze, un nuovo patto per assumere insieme obiettivi politici condivisi e individuare strategie e azioni; per dare e ri-dare valore alle professioni di cura e ai servizi in cui operano, rivedendo le politiche di investimento e di bilancio perché questo sistema torni ad essere sostenibile; per ripensare ai contratti di lavoro, perché corrispondano al valore reale di queste professioni nel garantire il bene comune e la tutela dei diritti garantendone la sostenibilità; per ripensare ai curricula formativi tra università e rappresentanti del mondo del lavoro, per una rinnovata competenza, adeguata e coerente ai bisogni delle persone di cui prendersi cura?

Da oggi questo è il nostro impegno:

  • Manteniamo un luogo comune di confronto e alleanze (Forum Terzo Settore, Alleanza delle cooperative italiane, –sindacati, ordini professionali, associazioni professionali, università) e azioni
  • Condividiamo piattaforme rivendicative unitarie, chiare, coerenti su cui convergere tutti ciascuno per la propria parte , capaci di connettere, valorizzare le nostre reti, superando parzialità pregiudizi (livello nazionale, regionale, locale)
  • Organizziamo un pride del lavoro sociale e di cura


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