Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Welfare & Lavoro

Inclusione, empowerment, diritti: è l’ora del Disability Pride

Torna il Disability Pride, un megafono per fare sentire potente la voce delle persone con disabilità, dei loro cari, dei loro amici, dei loro "alleati" non disabili. Sono voci generalmente flebili e disperse nei territori, spesso chiuse dentro qualche muro reale o virtuale che sia. Il Disability Pride riempie la strada dei corpi fisici di persone incomprimibili in un’unica definizione, ma che insieme reclamano pari dignità e diritti

di Redazione

«Storicamente la disabilità è spesso stata stigmatizzata, ingenerando paura, suscitando vergogna. In molti contesti, ancora oggi si guarda alle persone con disabilità esclusivamente come soggetti fragili, trascurandone, invece, le potenzialità che potrebbero renderle in grado di apportare un reale contributo all’interno della collettività». È quanto si legge nella Carta Comune dei Valori del Disability Pride Network (DPN), creato con l’intento di cambiare queste ingiustizie. Si tratta di una rete nazionale e internazionale aperta, nata dalla mente di Carmelo Comisi e costituita da diverse realtà, oltre che da tante persone con disabilità e persone non disabili, che condividono l’obiettivo di “garantire e promuovere la piena realizzazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità senza discriminazioni di alcun tipo sulla base della disabilità”.

È questa rete che programma Il Disability Pride, un megafono per fare sentire potente la voce delle persone con disabilità, dei loro cari, dei loro amici, dei loro "alleati" non disabili. Sono voci generalmente flebili e disperse nei territori, spesso chiuse dentro qualche muro reale o virtuale che sia. Il Disability Pride riempie la strada dei corpi fisici di persone incomprimibili in un’unica definizione, ma che insieme reclamano pari dignità e diritti. Le varie edizioni dei pride, fin dal loro esordio, hanno avuto una straordinaria partecipazione sia di singoli sia di tante associazioni, spesso anche in aperto contrasto tra di loro, ma che hanno sentito quella manifestazione patrimonio comune, dove sui particolarismi personali e politici, hanno avuto il sopravvento le sostanziali specificità dei diversi tipi di disabilità.

Anche nei Paesi che possono vantare un quadro normativo avanzato, fintanto che ci si rapporterà alle persone con disabilità con atteggiamenti paternalistici e meramente assistenziali, avremo davanti una prova di carattere culturale che dovremo affrontare e superare. «Ecco perché – sostengono i promotori – bisogna promuovere a livello globale un rinnovamento culturale che si sviluppi lungo tre direttrici: inclusione, empowerment, esercizio dei diritti».

Disabilità e lavoro

L’impatto della disabilità rimane forte anche sulla partecipazione al mondo del lavoro. Malgrado gli sforzi legislativi fatti (Legge 68 del 1999 sul collocamento mirato, Legge 381 del 1991 sul ruolo delle cooperative sociali di tipo B per l’inserimento lavorativo di persone disabili), lo svantaggio nell’accesso al mercato del lavoro rimane importante.

Spesso la disabilità in Italia rappresenta ancora un ostacolo ad accedere alle tappe fondamentali della vita, come il lavoro, l’istruzione, la mobilità, la libera circolazione e utilizzo dei luoghi pubblici.

Inclusione o integrazione al lavoro?

«Inclusione significa guardare ai lavoratori con disabilità non con l’ottica dell’assistenzialismo o per mero rispetto di vincoli di legge, bensì nella logica del business ethics e della corporate social responsibility», osserva Anna Zinola, professoressa di Metodi di ricerca all’Università Cattolica del Sacro Cuore e autrice del libro “Diverso da chi – L’inclusione come strumento di marketing” (Egea, 2021).

«Anche perché una logica di questo tipo fa bene in primis all’azienda: impatta in maniera positiva sulla sua reputazione, contribuisce a creare un passaparola positivo e, dunque, aumenta la propensione all’acquisto e la “fedeltà” dei consumatori. La conferma arriva da numerose ricerche». Un esempio? «La società di consulenza del lavoro Heidrick & Struggles – continua l’esperta – ha paragonato un gruppo di aziende attente alla diversità a un gruppo di società meno attente. Il risultato: in cinque anni il primo gruppo ha ottenuto un tasso di crescita annuo superiore del 62% rispetto al secondo. Le aziende che investono in diversity aumentano del 17% le performance, del 20% la qualità dei processi decisionali e del 29% il lavoro di squadra. Una forte cultura inclusiva, inoltre, permette di raddoppiare le possibilità di raggiungere gli obiettivi finanziari e accresce di sei volte la capacità di introdurre soluzioni innovative e agili».

Includere, specifica, «equivale a eliminare qualunque forma di discriminazione, ma sempre nel rispetto della diversità. In tal senso ha un significato ben diverso rispetto a un altro termine con il quale talora viene confuso: integrazione. L’inclusione è un processo: guarda a tutti i soggetti coinvolti e a tutte le loro potenzialità. Interviene prima sul contesto e poi sul soggetto. L’integrazione è una situazione: ha un approccio compensatorio. Interviene prima sul singolo soggetto e poi sul contesto». Per rappresentare in maniera immediata la differenza tra i due concetti possiamo immaginare un insieme di pallini di vari colori. «Se utilizziamo l’inclusione come principio guida, tutti i pallini vengono posti insieme, senza distinzioni o suddivisioni. Se invece facciamo ricorso all’integrazione, troviamo un insieme di pallini colorati al cui interno i pallini che non sono di un certo colore vengono a loro volta raggruppati tra di loro.

Includere equivale a eliminare qualunque forma di discriminazione, ma sempre nel rispetto della diversità.

Anna Zinola, professoressa di Metodi di ricerca all’Università Cattolica del Sacro Cuore

In apparenza è semplice. Ma, se passiamo dai pallini agli esseri umani, la situazione si complica. Prendiamo, come esempio, le persone con ridotta capacità motoria. Operare in una logica di integrazione significa porre, in un ufficio, una rampa in un accesso secondario per consentire loro di entrare. In questo modo si garantisce a tutti la possibilità di accesso. Tuttavia le persone con disabilità motoria devono entrare da un ingresso secondario. Operare in una logica di inclusione significa modificare l’ingresso principale per rendere l’accesso possibile in egual misura a tutti».

Esempi positivi

Modelli ed esempi virtuosi di inclusione lavorativa di persone con disabilità certamente non mancano, sia all’interno di contesti organizzativi pubblici che privati: si pensi ad esempio al lavoro svolto dal gruppo di lavoro creatosi attorno al "Responsabile dei processi di inserimento delle persone con disabilità (Rpi)", insediatosi all’Istat nel febbraio 2020, conclusosi nella pubblicazione di un volume il cui “intento è quello di promuovere il processo di inclusione, attraverso la sensibilizzazione e la stimolazione di una reciproca conoscenza tra colleghi, dove le diverse abilità di ciascuno possano venire riconosciute, valorizzate e accettate come risorsa necessaria allo svolgimento del lavoro comune”. Grazie a questo lavoro, si cerca di suggerire a tutte le amministrazioni pubbliche con più di 200 dipendenti (che per legge devono avere la figura del Rpi), di “mettere in campo risorse adeguate per non cedere all’instabilità e valorizzare, invece, le diverse abilità di ciascuno”.

Numero Zero e PizzAut

In alcuni settori l’inclusione viene sperimentata con risultati sorprendenti, in particolare agli occhi di chi identifica nel disabile una risorsa idonea solo a ruoli minori e isolati, al di fuori delle relazioni con il pubblico: si pensi ad esempio all’esperienza di Numero Zero, un ristorante di Perugia dove la metà dei dipendenti soffre di disturbi mentali; in questo luogo viene offerta la possibilità concreta di reinserimento sia sociale che lavorativo per persone con disturbi psichiatrici, in un contesto che mette il “diverso” al centro di una dimensione sociale e comunitaria, quale è quella di un ristorante. O ancora, si pensi all’importanza del progetto milanese PizzAut, una pizzeria gestita da ragazzi con autismo affiancati da professionisti della ristorazione e della riabilitazione: un vero e proprio laboratorio di inclusione sociale e al tempo stesso un modello che permette alle persone autistiche di formarsi e lavorare, riconquistando la propria dignità attraverso il valore del proprio lavoro.

Benefici per le start up social innovative

Alla fine del 2021, dopo quasi due anni dalla sua nascita, la commissione Lavoro del Senato ha incardinato il disegno di legge sulle “start up sociali innovative”. Si tratta della proposta tesa a sostenere, da parte dello Stato, iniziative imprenditoriali profit che fanno dell’inclusione sociale e lavorativa di persone con disabilità e con disturbi dello spettro autistico il caposaldo della propria attività». A darne notizia è il senatore Eugenio Comincini, primo firmatario della proposta insieme a Matteo Renzi, Davide Faraone, Laura Garavini e Simona Malpezzi. La logica sottesa al disegno di legge, che era stato presentato nel novembre 2019 e aveva ricevuto il sostegno di Giuseppe Conte e l'attenzione del Ministro del lavoro Andrea Orlando, è quella di favorire e sostenere la nascita e lo sviluppo di imprese la cui attività è orientata al mercato e al profit, tenendo conto, per un periodo limitato, dei maggiori oneri e costi di un’organizzazione produttiva basata sull’operatività di personale affetto da disturbi dello spettro autistico».

Continua a leggere su Morning Future

Foto in apertura, un momento del Disability Pride dell'anno scoro


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA