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Petrini: non c’è transizione, senza comunità di destino

La versione integrale dell'editoriale del numero di luglio/agosto di VITA magazine firmato dal fondatore di Slow Food: "Nella mia vita ho avuto la fortuna di entrare in contatto con moltissime comunità, negli angoli più diversi e spesso remoti del mondo. Ciò mi ha permesso di realizzare quanto questa forma organizzativa sia vincente dal punto di vista sociale, culturale ed economico"

di Carlo Petrini

Nel complesso periodo storico che stiamo vivendo in un clima di destrutturazione, incertezza e sconforto, mi sono trovato più volte a riflettere su quale sia il modello ancora in grado di aggregare e organizzare la partecipazione delle persone in maniera duratura.

Come possiamo trasmettere il senso di appartenenza pur essendo immersi in un contesto di crisi sociale, dove distanziamento e terrore la fanno da padroni? Quali insegnamenti possiamo trarre dalle difficoltà oggettive che affrontiamo in questo particolare momento? La risposta l’ho trovata nel concetto di comunità. Un termine che nel suo etimo più antico richiama alla condivisione dei doni (dal latino cum- munus; con dono).

Nella mia vita ho avuto la fortuna di entrare in contatto con moltissime comunità, negli angoli più diversi e spesso remoti del mondo. Ciò mi ha permesso di realizzare quanto questa forma organizzativa sia vincente dal punto di vista sociale, culturale ed economico.

Sto parlando della forma di aggregazione più antica della storia. La quale solo recentemente è stata screditata dall’individualismo della società moderna, che ne ha negato l’importanza dei valori fondamentali quali la cooperazione, l’intelligenza affettiva e “l’austera anarchia”.

La cooperazione, anche se non molto praticata, fra i tre è il concetto più comunemente utilizzato. Tramite essa si supera il dogma della competitività tipico del nostro agire odierno. A mio avviso, le comunità sono i luoghi più adatti per scardinare questa logica di pensiero che genera ansia, frustrazione e un continuo senso di inadeguatezza. Partendo da piccoli cambiamenti quotidiani condivisi dalla collettività, è possibile ricostruire un tessuto adatto alla realizzazione umana universale.

L’intelligenza affettiva consente di sentirci parte di una comunità di destino che condivide un percorso comune, pur nel rispetto di ciascuna individualità. Questo permette di praticare la reciprocità; all’interno della quale è concesso commettere errori senza per questo essere esclusi – anzi tutti traggono insegnamento dagli errori degli uni – e dove non sono richieste continue prestazioni. L’identificazione in un progetto comune genera così una spontanea rete di relazioni e di vicinanze, che non può essere scalfita dall’esterno. Un collante molto più efficace di qualsiasi adesione formale o regola imposta dall’alto.

“L’austera anarchia” permette a sua volta un rovesciamento concettuale del modello organizzativo che ha caratterizzato la nostra società da più di un secolo a questa parte. É il superamento delle tendenze conservative e degli schemi rigidi di governo: un modo di pensare e agire fluido e in libertà. Così facendo si favorisce la diversità e la realizzazione individuale, senza compromettere il benessere comune; ed è possibile adottare (e adattare) ogni singola decisione alle vere esigenze e priorità della propria comunità.

Non dimentichiamoci infatti che la vera forza della comunità è che il tutto è ben più della semplice somma delle parti. E che la mera totalità degli interessi individuali non è mai in grado di soddisfare le vite di tutti. Il valore si ha nell’unione, e non c’è benessere se non è per tutti. Inoltre, sempre per quello che ho potuto constatare nelle mie esperienze, nelle comunità l’organizzazione si modifica a seconda dell’apporto che i singoli possono offrire in un dato momento; ma tutti hanno a cuore la cura del bene comune.

Tutto ciò corrisponde alla nostra realtà? Le nostre esigenze organizzative, le ferree leggi di bilancio, i meccanismi di governance, sono compatibili con queste suggestioni? Le buone idee e le buone pratiche hanno tempi lenti e quel che conta è intraprendere una strada virtuosa. Ci vuole pazienza per correggere il tiro rispetto a pratiche che troppe volte riteniamo intoccabili. Ognuno di noi ha la potenzialità di generare cambiamento: dobbiamo farci carico di questa consapevolezza che è al contempo una responsabilità.

Questa visione di cui ho voluto rendervi partecipi e con la quale mi identifico molto, rappresenta per me una risposta anche nei tempi difficili che stiamo vivendo. Per questo sono fiducioso che in presenza di uno spirito compassionevole e un legame fraterno, il risultato delle nostre azioni non potrà che tendere verso un futuro più sostenibile, equo e giusto. E questo non ci verrà impartito dai palazzi del potere o dai leader mondiali; ma potrà avvenire solo se sarà la società civile a farsi promotrice di un nuovo umanesimo che rimetta al centro la solidarietà e la fratellanza come valori irrinunciabili del nostro esistere.

Disponiamoci dunque a cogliere l’opportunità che sfide che stiamo affrontando ci pongono innanzi. Penso infatti che non sia l’assenza di problemi ad essere per noi una fonte di felicità: al contrario, fronteggiare le difficoltà, mettersi in gioco per superarle, lottare per cambiare una situazione ingiusta, creare narrazioni alternative: tutto questo, se fatto insieme, ben rappresenta l’essenza della felicità.



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