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Cooperazione & Relazioni internazionali

La pace è in una direzione di marcia

Si avvicina il 5 novembre, la grande marcia europea per la pace, e dopo gli strafalcioni e le grandi incongruenze della manifestazione di piazza Plebiscito a Napoli, molti pacifisti avvertono il pericolo dietro l’angolo anche sulla manifestazione di Roma del 5 novembre. Il rischio è presto detto: una manifestazione che “chiede la pace” ma che non sa esattamente cosa intende raggiungere con questa parola invocata. Proviamo a rispondere

di Angelo Moretti

Si avvicina il 5 novembre, la grande marcia europea per la pace, e dopo gli strafalcioni e le grandi incongruenze della manifestazione di piazza Plebiscito a Napoli (dove gli studenti hanno subito una sorta di “mobilitazione parziale” a rovescio), molti pacifisti avvertono il pericolo dietro l’angolo anche su Roma. Il rischio è presto detto: una manifestazione che “chiede la pace” ma che non sa esattamente cosa si intende con questa parola invocata.

Lo psicologo Hillman, erede di Jung, ebbe parole dure contro la “pace” intesa alla maniera comune. “Non voglio marciare per la pace, nè pregare per la pace, perchè la pace falsifica tutto ciò che tocca. E’ una copertura, una iattura” e continua “Tregua, sì; cessate il fuoco, si; resa, vittoria, mediazione, politica del rischio calcolato, stallo: queste parole hanno un contenuto, ma pace…la pace è buio che cala”.

Don Tonino Bello fu ancora più diretto, amava ripetere: “la pace è finita, andata a messa” invitando i fedeli, alla fine di belle ed emozionanti celebrazioni eucaristiche, a restare inquieti e non cercare il riposo e la quiete egoistica.

Gesù poi rasenta lo scandalo quando improvvisamente chiarisce nel Vangelo “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”

Se anche Gesù ha sentito il bisogno di mettere in guardia i suoi sulla parola “pace” deve esserci un’ambiguità di fondo non dovuta solo alla complessità dello scenario ucraino. C’è un atavico pericolo di disimpegno, nascosto nelle pieghe di una “ricerca della pace”.

Infine non è da dimenticare la nettezza con cui il principale fautore della nonviolenza attiva praticata, il Mahatma Gandhi, chiarisce i termini tra desistenza e nonviolenza: “Credo che nel caso in cui l'unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza”. Per la grande anima del pacifismo indiano la nonviolenza non è una forma di resa per raggiungere la pace, ma una forma di lotta più forte della violenza: “Noi in India prima o poi comprenderemo che non è possibile che centomila inglesi incutano timore a trecento milioni di esseri umani. E il perdono significherà il riconoscimento della nostra forza. Un illuminato perdono produrrà in noi sicuramente una potente ondata di forza”, è in queste parole il cuore del satyargaha gandhiano, quella affermazione della “forza della verità” nella storia dei conflitti tra oppressi ed oppressori, una forza che può emergere solo se una massa resistente di corpi disarmati si frappone all’oppressore.

Secondo la posizione del Mean, che sarà in piazza il 5 novembre con tutto il variegato popolo pacifista europeo, oggi siamo chiamati a lottare per la pace, accanto agli oppressi, perché è oggi che si definisce il confine tra “umano” e “non umano”. Il richiamo di don Tonino e la paura di un “mostro” nascosto sotto il tappeto, nella concezione di Hillmann, ci devono orientare in questi giorni all’impegno personale.

Il protagonismo della società civile europea

Nessuno lavorerà all’edificio della pace al posto nostro nel contesto dei governi attuali e delle organizzazioni internazionali. L’Onu è notoriamente imprigionata dal diritto di veto di cinque potenze nucleari; il gruppo degli Stati di Visegrad detta dentro l’Ue le condizioni sull’accoglienza dei profughi del mondo e rispolvera i discorsi sulla “razza”; a Melilla, sul Mediterraneo italiano, ed in Grecia abbiamo issato nuovi muri e cortine di ferro contro i poveri che arrivano dal Sud; l’Unione Europea ha perso l’intesa con il Regno Unito; gli USA sono spaccati al loro interno tra il modello trumpista, che vorrebbe abbandonare l’Europa al suo destino, ed il modello di Biden che vuole tentare la riaffermazione dell’alleanza atlantica; parte dei BRICS (Brasile-Russia-India-Cina-SudAfrica) provano ad essere egemoni su buona parte del pianeta, garantendo sempre meno democrazia, a favore dei tiranni ed autocrati uniti. Nelle organizzazioni dei paesi arabi le plutocrazie elitarie hanno ancora un peso determinante.

Il riverbero di questo scenario così frammentato è in una istantanea del 2 marzo 2022. Il Consiglio di sicurezza ONU ha condannato la guerra russa all’Ucraina con un apparente maggioranza schiacciante: 141 stati a favore della condanna, contro 35 astenuti e soli 5 contrari, ma se si gira la fotografia si scopre un’altra verità: il totale degli abitanti di coloro che vivono negli stati che non hanno condannato la Russia supera di gran lunga i loro omologhi che vivono negli Stati che l’hanno condannata, quasi due miliardi di persone contro un miliardo e trecento.

La tirannia e le autocrazie rappresentano oggi un trend di maggioranza nella polveriera mondiale, ed il numero di regimi che “virano” da democrazie imperfette a stati autoritari continua a crescere secondo gli osservatori internazionali.

Come si può fermare questa spirale se non correndo in prima persona, come società civili di paesi liberi e democratici, il “rischio” di innescare processi democratici migliori di quelli di oggi? Far parlare le società civili ed i territori di diverse nazioni di “costruzione condivisa della pace”, qui ed ora, significa poter parlare di una democrazia partecipata che unisca i popoli oltre i confini delle moderne linee Maginot.

Per fare questo lavoro, non avendo una vera politica estera unitaria nè un esercito, l’Europa delle nazioni dovrebbe fare spazio all’Europa dei popoli, concetto antico e mai compiuto del tutto, fatta eccezione per il successo dei progetti Erasmus che hanno avvicinato milioni di giovani alla comunanza del destino di europeo.

Il ruolo inedito della nonviolenza attiva europea

In questo avanzamento di un’Europa dei popoli che urgentemente copra i vuoti dell’UE dovrebbe avere un ruolo preciso la capacità trasformativa della nonviolenza attiva. Un costrutto filosofico e spirituale che ha in Europa decine di testimoni e teorici straordinari ( da Mazzolari a Levinas, da Balducci a Bobbio, da San Francesco a Capitini, da don Milani a Lanzo del Vasta) ma pochi esempi di coinvolgimento di massa.

A riprova che la Nonviolenza attiva abbia incontrato scarso interesse per la sua affermazione politica, sono i testi del pur profetico Concilio Vaticano II. I padri conciliari, che trasformarono per sempre la chiesa moderna, si limitarono a non sconfessare le pratiche di nonviolenza attiva, ma senza promuoverle, e dedicarono al tema un solo riferimento esplicito nel capitolo 78 della Gaudium et Spes, allo scopo di limitarne la giustificazione: “noi non possiamo non lodare coloro che, rinunciando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono a quei mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata anche dei più deboli, purché ciò si possa fare senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità”.

Erano altri tempi, prima dell’avvento della società liquida e dei network globali, il mondo era diviso in due blocchi e due ideologie dominanti, i governi rappresentavano un sentimento maggioritario dei popoli, mentre il Sud del mondo era trattato solo come una prateria da occupare e condizionare in uno o l’altro degli schieramenti contrapposti.

In Occidente esistevano i grandi partiti della democrazia post seconda guerra mondiale. Oggi quel mondo è evaporato ed in questo nuovo scenario sono le organizzazioni della società civile a godere di nuovo protagonismo. A noi tocca decidere se intraprendere o meno la via, inedita per il nostro continente politico, di una nonviolenza attiva di massa, laddove non abbiamo nè esercito nè corpi civili di pace. Non vediamo altra via per perorare la causa del dialogo tra oppressore ed oppressi.

Andare a Kiev

In questo scenario complesso, foriero di questa guerra ma anche di nuove, dovrebbe essere chiaro a tutte e tutti che una contraerea che protegge i tetti delle case ed i parchi giochi finisce per essere apprezzata dagli oppressi più di un pezzo di pane, ma se questo è il dialogo tra gli Stati, noi società civili siamo chiamati a seminare altro.

L’edificio della pace scricchiola in Europa sotto i colpi di un pensiero pacifista che unisce no-vax e no-nato, che punta a tenere separati i no-Biden ed i pro-Kiev, che vorrebbe piegare ed interpretare le ragioni del popolo oppresso senza mai incontrarlo, perdendo credibilità a Kiev e venendo facilmente strumentalizzato a Mosca.

La non-presenza di una massa di civili europei in Ucraina sarà pagata con la difficoltà di essere ascoltati da oppressi ed oppressori.Ed anche se un giorno dovessimo vedere dei negoziati, potremmo avere un terreno non preparato, un campo perennemente minato al di qua ed al al di là del Dnipro.

Tocca a noi oggi ordire una trama in cui la riconciliazione è possibile, nonostante le peggiori nefandezze, come già avvenne, per esempio, con le commissioni verità e riconciliazione del Sudafrica, nella gestione del dopo Apartheid.

Il Satyagraha europeo

Riprendendo le parole di don Tonino, a noi sembra che questo sia il momento della corretta gestione conflitto più che della pace, rimuoverlo non servirà a nulla, affidarlo al potere negoziale degli Stati non sarà un viatico sufficiente.

Oggi è il momento di far avanzare, con i nostri corpi e le nostre comunità coese, il conflitto non armato, vissuto in massa da chi vuole lottare per la pace e non solo invocarla. La pace oggi non è più e non è solo una marcia univoca a Roma, ma ha una direzione nuova, verso Kiev.

Per sostenere quei popoli, per difenderli, per costruire con loro i futuri desiderabili di una migliore democrazia europea. Dobbiamo tenerci uniti sotto il fragore ed il pericolo delle bombe, che sentiamo concretamente su di noi solo quando siamo accanto in un bunker e la sirena suona eppure continuiamo a parlare di pace.

È lì che si può fondare la pace di domani, disarmando l’aggressore con l’avanzata della nostra “forza della verità”, il nostro nuovo satyagraha, mai avvenuto in Europa fino ad oggi, ed è per questo, con queste domande e con questo spirito, che parteciperemo alla manifestazione del 5 novembre.

@Foto di Luca Daniele per gentile concessione di Mean


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