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Economia & Impresa sociale 

Svimez, per il Sud si prospetta un anno in salita

Presentato il 49° Rapporto dell'Associazione Sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, che annuncia una recessione nel corso del 2023. Il Pil del Mezzogiorno andrà a contrarsi sino allo -0,4%. Si stimano 760mila nuovi poveri causati dallo shock inflazionistico, di cui mezzo milione nel Meridione. Tra i divari più evidenti tra Nord e Sud, si confermano quelli dell’istruzione e dell'occupazione femminile

di Redazione

Il Sud Italia andrà in recessione nel corso del 2023. Lo annuncia il Rapporto Svimez presentato oggi alla Camera dei deputati. Dalle proiezioni, il Pil del Mezzogiorno andrà a contrarsi sino allo -0,4%; quello del Centro-Nord, pur rimanendo positivo a +0,8%, segnerà un forte rallentamento rispetto al 2022. Il dato medio italiano dovrebbe attestarsi invece intorno a un magro +0,5%.

La 49esima edizione del Rapporto non poteva prescindere dalle dinamiche globali (rallentamento della ripresa, comparsa di nuove emergenze sociali, nuovi rischi operativi per le imprese) che hanno interrotto il percorso di ripresa nazionale coeso tra Nord e Sud. Gli effetti territorialmente asimmetrici dello shock energetico stanno penalizzando soprattutto le famiglie e le imprese meridionali, e questo dovrebbe riaprire la forbice di crescita del Pil tra Nord e Sud. Secondo le stime Svimez per l’anno in corso, il Pil dovrebbe crescere del +3,8% su scala nazionale, con il Mezzogiorno (+2,9%) distanziato di oltre un punto percentuale rispetto al Centro-Nord (+4,0%). A causa dei rincari di beni energetici e alimentari, l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta potrebbe crescere di circa un punto percentuale, salendo all’8,6%, con forti eterogeneità territoriali: +2,8% nel Mezzogiorno contro lo 0,3% del Nord e lo 0,4% del Centro. In valori assoluti, si stimano 760mila nuovi poveri causati dallo shock inflazionistico (287mila nuclei familiari), di cui mezzo milione al Sud. L’aumento in bolletta annuale è pari a 42,9 miliardi di euro per le imprese industriali italiane: il 20% circa (8,2 miliardi) grava sull’industria del Mezzogiorno, il cui contributo al valore aggiunto industriale nazionale è tuttavia inferiore al 10%.

Il 2024 dovrebbe essere un anno di ripresa, sulla scia del generale miglioramento della congiuntura internazionale. Dovrebbe proseguire il rientro dall’inflazione, nel frattempo scesa al +2,5% nel Centro-Nord e al +3,2% nel Mezzogiorno. Il Pil potrebbe aumentare nel 2024 dell’1,5% a livello nazionale (+1,7% nel Centro-Nord e +0,9% al Sud). Il dato del Mezzogiorno, di per sé apprezzabile visto che dovrebbe tornare in territorio positivo dopo il calo del 2023, sarebbe comunque sensibilmente inferiore a quello del resto del Paese.

La debole ripartenza meridionale si spiega anche con i continui restringimenti di base produttiva sofferti dal Sud sin dal 2008, che hanno sensibilmente ridimensionato la capacità del sistema produttivo dell’area di agganciare le fasi espansive del ciclo economico. Due le strade da seguire secondo gli esperti dello Svimez: assicurare la continuità delle misure contro il caro energia, per mitigare l’impatto sui bilanci di famiglie e imprese, e allo stesso tempo accelerare sul fronte delle misure di rilancio degli investimenti pubblici e privati, dando priorità alla politica industriale attiva per ampliare e ammodernare la base produttiva (soprattutto al Sud), condizione imprescindibile per la creazione di buona occupazione. “Mettere in sicurezza l’attuazione del Pnrr è cruciale”, si legge nel Rapporto. Occorre consolidare “la finalità di coesione economica, sociale e territoriale, potenziando le misure di accompagnamento degli enti territoriali nella realizzazione delle opere e rafforzando il coordinamento del Piano con la politica di coesione europea e nazionale e con la politica ordinaria”.

Tra i divari più evidenti tra Nord e Sud, rimane preoccupante quello dell’istruzione. I servizi socioeducativi per l’infanzia sono caratterizzati dall’estrema frammentarietà dell’offerta e da profondi gap territoriali nella dotazione di strutture e nella spesa pubblica corrente utilizzata dalle Amministrazioni locali. In Italia la percentuale dei bambini di età compresa fra i 3 e i 5 anni che frequenta una struttura educativa (93,2%) è più alta della media europea (89,6%). Nella scuola d’infanzia, la carenza d’offerta a sfavore del Mezzogiorno riguarda soprattutto gli orari di frequenza. Nel Mezzogiorno è molto meno diffuso l’orario prolungato (offerto solo al 4,8% dei bambini); viceversa è più diffuso l’orario ridotto (20,1%) rispetto al Centro-Nord. Nella scuola primaria la percentuale di alunni che frequenta a tempo pieno è più bassa nelle regioni meridionali (18,6%) rispetto al resto del Paese (48,5%). Circa 550mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano scuole dotate di una palestra.

Il tasso di occupazione femminile al Sud è molto lontano dalla media europea. In Italia il gap con l’Europa è ulteriormente aumentato, avvicinandosi ai 15 punti nel 2022. Il ritardo dell’Italia, che nei primi anni Duemila era essenzialmente ascrivibile alle regioni meridionali, si è esteso alle regioni del Centro-Nord. Portando il confronto all’interno del Paese, è netto il divario tra i tassi d’occupazione femminile del Mezzogiorno e del Centro-Nord, che in termini di numero di occupati si quantifica in 1,6 milioni: significa che, se il tasso di occupazione femminile fosse uguale a quello del Centro-Nord, nel Mezzogiorno l’occupazione femminile aumenterebbe di 1,6 milioni).

In Italia sono circa 4 milioni, di cui circa 1,8 milioni nel Mezzogiorno, le donne più o meno vicine al mercato del lavoro ma che non vengono impiegate. La peculiare carenza di domanda di lavoratrici nelle regioni meridionali è resa manifesta da valori intorno al 50% dell’indicatore, a evidenziare che solo la metà delle donne potenzialmente disponibili a lavorare trovano occupazione. Per le donne, i problemi familiari sono tra le principali cause di dimissioni volontarie: nel 2020, oltre il 77% delle convalide di dimissioni di genitori di figli tra 0 e 3 anni è ascrivibile alle donne.


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